SCENE CORSARE
IL TEATRO DI PASOLINI A SPOLETO É L’ORA DI LIBERARE IL POETA DALL’AURA GREVE DEL SOCIOLOGO L’appuntamento Il 58° Festival dei due Mondi, al via il 26 giugno, ospita due lavori dell’intellettuale morto 40 anni fa. Uno scrittore spiega come l’utilizzo fram
Fa bene il Festival di Spoleto a puntare sul teatro di Pier Paolo Pasolini, potente organismo verbale che occupa un posto di assoluta originalità nella drammaturgia del '900. Non sarà senza significato, credo, ricordare che l’esperimento teatrale prese corpo, nel 1966, durante un periodo di convalescenza passato a letto in compagnia dei tragici greci e di Platone. Non so se Pasolini avesse mai letto le splendide pagine del saggio che Virginia Woolf dedicò alla particolare intensità delle letture che si fanno da malati, costretti al riposo e alla posizione orizzontale.
Di sicuro c’è che la critica, con rare eccezioni, disdegna molto l’evocazione di certe circostanze materiali dell’ispirazione, relegandole fra i pettegolezzi. Il guaio è che solo la cattiva letteratura si può paragonare a Minerva, uscita castamente, con tanto di elmo, dalla testa di Giove. La scrittura di un grande poeta è sempre, in qualche modo misterioso e illuminante, un capitolo della storia del suo corpo. Voglie e malattie vi giocano un ruolo che può rivendicare pari dignità rispetto a letture e a legami intellettuali. È ovvio che questo modo di vedere produca imbarazzi: nel riconoscere una grandezza, può essere facile varcare i confini della discrezione.
Ma se non corriamo questo rischio, noi trasformiamo un essere vivente in un monumento e la sua lezione di libertà in un discorso censurato. Mai come nel caso di Pasolini, risulta evidente come il monumento e la celebrazione ufficiale, oltre che essere del tutto inutili, siano l’esatto contrario di un’eredità viva. Può essere interessante capire come avviene questo processo di mummificazione. Un espediente classico è quello del fraintendimento, che serve a ricondurre un’anomalia nell’alveo di idee più riconoscibili e rassicuranti.
È quello che avvenne, alla metà del secolo scorso, con l’invenzione di un Leopardi «progressista», che è una follia non molto più attendibile di quella di un Leopardi «cattolico». Il caso di Pasolini è molto più insidioso, perché la materia del monumento consiste principalmente di citazioni prelevate dalle sue opere. Dunque si tratta di parole sue, sempre poste tra virgolette, dotate del crisma dell’autenticità. Ma accade, in queste delicate operazioni di memoria, che proprio il massimo dell’apparente fedeltà coincida con la più effettiva infedeltà. La critica, il giornalismo, e a volte anche il dibattito politico hanno visto in Pasolini un immenso serbatoio di frasi, così scollegate dal loro contesto e dalle loro primitive intenzioni da diventare in pratica buone a tutto. Non basterebbero tutti i Baci Perugina per contenere gli slogan e i modi di dire ricavati dalle pagine di Pasolini. Mi ricordo di quando qualche politico di destra, di quelli che avendone l’occasione avrebbero volentieri mandato al rogo tutti i libri di Pasolini, citava la famosa poesia sugli scontri tra studenti e poliziotti a Valle Giulia per giustificare la mattan- za del G8 di Genova. Ma questo è un caso limite, in un terreno dove creano più danni le buone intenzioni che malafede e ignoranza. Molto più grave è che l’aver ridotto un’opera fluviale e multiforme a un ricettario di opinioni ha trasformato Pasolini, quest’uomo così ironico e imprevedibile, in una specie di sociologo con la testa piena di lugubri e contraddittorie opinioni.
Quando la sua forza risiede proprio nell’unità e nella varietà di un percorso artistico che attraversa tutti i generi di espressione, senza mai identificarsi del tutto in un risultato o in una formula. Quello che ci lascia Pasolini è l’energia di un progresso continuo, uno stato di perpetua insoddisfazione ed approssimazione. Per fortuna, esiste anche un efficace antidoto al monumento: l’edizione delle Opere Complete curata da Walter Siti per Mondadori, autentica dissacrazione filologica, se così si può dire, che ci costringe a prendere o lasciare tutta intera l’avventura di Pasolini nella sua drammatica fluvialità, senza ritagliarne le fettine che ci fanno più comodo.
Considerata così, l’opera di Pasolini è un vero corpo, o se si preferisce l’ombra del corpo fisico, il sismografo della sua capacità di piacere e della sua angoscia di morte. Solo Artaud, prima, aveva praticato con tanta coerenza e radicalità la scrittura come variante della biologia. E allora, dire che il teatro di Pasolini esce da un’ulcera duodenale, non intende essere una battuta ad effetto, ma l’indicazione di qualcosa di così raro e prezioso che ancora bisogna iniziare a comprenderlo per bene. Le eredità più preziose ed insostituibili non sono quelle che non si lasciano mai definire comodamente?
Per critica, giornalismo e politica è un enorme serbatoio di frasi buone a tutto: come quelle dei Baci