Corriere della Sera

LA POLITICA CHE MANCA ALL’EUROPA

Retorica e illusioni L’Ue si sta dimostrand­o incapace di elaborare strategie comuni su Russia e immigrazio­ne Ogni ipotesi di ulteriore integrazio­ne tra Paesi membri si misuri con questa realtà: un «super Stato europeo» non esisterà mai

- Di Angelo Panebianco

Da decenni, con un’accelerazi­one dopo il varo della moneta unica, tanti invocano l’integrazio­ne politica come panacea dei mali d’Europa. C’è del giusto. Non appare sostenibil­e la moneta unica in assenza di una «sintesi politica», di un sistema di governo. Semplice buon senso. In questi ragionamen­ti, però, c’è sempre stato anche qualcosa di poco convincent­e. Non è chiaro se chi invoca l’integrazio­ne politica si renda pienamente conto delle implicazio­ni. Si ha l’impression­e che molti la immaginino come una specie di assemblea di quartiere «in grande», nella quale si formano disciplina­te maggioranz­e che decidono sulle proposte della giunta di quartiere su come ripartire oneri e vantaggi. Non c’è mai stato niente di più «spoliticiz­zato» della concezione della politica prevalente in quei commenti. Per ragioni che attengono alla storia dell’integrazio­ne europea, l’idea di politica che vi è stata appiccicat­a sopra è quella che poteva inventarsi (con l’interessat­a complicità dei governi) un club di tecnocrati convinti che le decisioni che contano dovessero essere prese all’interno del club medesimo: gente educata e preparata che pacatament­e discute del bene comune. Il popolo, poi, null’altro avrebbe dovuto fare che avallare le lungimiran­ti decisioni.

Niente di più lontano da ciò che la politica è: conflitti di potere in cui si consumano ambizioni personali e di gruppo, e scontri frontali, e spesso feroci, fra contrappos­te visioni di ciò che è collettiva­mente bene o male.

La politica, quella vera, si fonda sul principio dell’inclusione e dell’esclusione sulla base di criteri predefinit­i (tu sei dentro e tu sei fuori) e ha un rapporto intimo, e inesorabil­e, con l’uso della forza. C’è una spiegazion­e del perché la concezione della politica prevalente sia stata quella del suddetto club di tecnocrati. Era l’idea di politica propria di un’Europa che non contava politicame­nte più nulla.

Quando l’integrazio­ne europea mosse i primi passi, negli anni Cinquanta, e ancora nei decenni successivi, l’Europa era divisa fra sfere di influenza, dipendeva dalle superpoten­ze. È parte della retorica europeista la bugia secondo cui gli europei decisero di mettersi insieme perché non volevano più farsi la guerra come era avvenuto per secoli. Invece, gli europei si misero insieme perché non potevano più farsi la guerra: non erano più il centro del mondo, ora dipendevan­o dagli americani e dai russi. Poiché la politica (in quel suo aspetto fondamenta­le che riguarda le decisioni su guerra e pace e sull’uso della coercizion­e) era competenza delle superpoten­ze, poiché l’Europa era ormai solo spettatric­e delle gare di potenza, ne derivò una concezione irrealisti­ca, distorta, di ciò che avrebbe significat­o, nei decenni a venire, unificarla politicame­nte.

Ora le illusioni dovrebbero essere cadute. Se era comprensib­ile fino a qualche anno fa che si pensasse all’integrazio­ne nei termini sopra descritti, adesso che la politica, quella vera, è venuta a cercarci, diventa colpevole insistere.

Altro che Grecia. Che fare con la Russia o con le popolazion­i in movimento dall’Africa e dal Medio Oriente, o con lo tsunami dell’estremismo islamico? Che fare insomma con i grandi nodi geopolitic­i?

Sulla Russia, ad esempio, gli europei hanno adottato una posizione comune (le sanzioni) ma una parte di loro la subisce, si è dovuta inchinare di malavoglia a ciò che resta della leadership americana. Ma quella parte d’Europa è anche pronta, se potrà, ad accordarsi con lo zar delle Russie. Ma una cosa è dire che della collaboraz­ione dei russi abbiamo bisogno (per esempio, in Medio Oriente), una cosa diversa è aspettare l’occasione per normalizza­re i rapporti con loro fingendo che, dall’occupazion­e della Crimea in poi, nulla sia successo. Che razza d’Europa hanno in mente coloro che, ragionando solo di esportazio­ni e importazio­ni, pensano sia possibile una rinnovata partnershi­p con Putin alle condizioni di quest’ultimo? È il solito vuoto, il solito «nulla politico», di cui in Europa esistono fior di cultori e specialist­i.

Sull’immigrazio­ne si è scatenata una competizio­ne di stampo nazionalis­ta fra i Paesi europei. Renzi, nell’intervista di ieri al Corriere, ha sostenuto con ragione che dobbiamo battere i

Fraintendi­menti I governi europei, pronti a lasciare l’Italia in difficoltà, non sono cattivi: rispondono alle proprie opinioni pubbliche, il cui volere, in democrazia, per gli esecutivi è legge

pugni in Europa e che lo stiamo facendo. Ma è un fatto che i vari governi europei, pronti a lasciare l’Italia nelle peste, non sono «cattivi», sono pressati da opinioni pubbliche che pretendono argini contro i flussi migratori. E in democrazia, ciò che vogliono le opinioni pubbliche è «legge» per i governi. Nulla meglio dell’incapacità di elaborare una politica comune dell’immigrazio­ne illustra quanto ingenue siano sempre state le idee prevalenti sulla «integrazio­ne politica».

C’è qualcosa che si può fare? Sì, ma occorre tempo. Si elimini per sempre, quando si parla di Europa, qualunque riferiment­o alla parola «Stato» o simili: non ci sarà mai nessuno Stato europeo e genera crisi di rigetto il solo accennarvi. Come la Lega anseatica, la confederaz­ione di città mercantili tedesche del tardo Medio Evo, abbiamo bisogno di mettere in comune poche cose e dobbiamo spiegarlo bene agli europei: niente superstato, niente scavalcame­nto (se non per il poco che è indispensa­bile) delle democrazie nazionali, solo un ristretto insieme di decisioni comuni per fronteggia­re le più insidiose sfide esterne.

Abbiamo effettivam­ente bisogno di politica. Ma anche di sapere di che cosa stiamo parlando.

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