LA DISFIDA DELLE PAROLE CHE RALLENTA LA NOSTRA RETE
Il decreto sulle Comunicazioni sembra ormai materia per l’Accademia della Crusca. Non si discute più sui contenuti ma si dibatte sul lessico: la Rete deve garantire la simmetricità o meno della navigazione?
Gli incentivi possono andare anche a soggetti non verticalmente integrati? È su questi due termini, simmetricità e verticalità, che il decreto atteso da settimane in Consiglio dei ministri ha rischiato nei giorni scorsi di diventare un disegno di legge per finire in un probabile binario morto. Intanto dalla bozza una manina ha già cancellato la simmetricità e opera per far sparire nelle ultime ore anche la verticalità. Gli sherpa che si stanno adoperando nel confronto letterario sono tutt’altro che interessati all’aspetto linguistico. I termini, tecnici, nascondono lo scontro in corso ormai da mesi tra due scuole di pensiero e due architetture della rete: da una parte c’è quella guidata da Metroweb (Cdp) che punta alla fibra fino agli appartamenti (Ftth) insieme a Vodafone e Wind. Dall’altra Telecom Italia e Fastweb che vogliono mantenere l’ultimo miglio in rame (Fttc). Dal punto di vista economico il braccio di ferro è comprensibile: la nascita di una nuova rete accende appetiti, cambia le carte in tavola, redistribuisce il potere di mercato. Non è certo un caso che sullo sfondo si stia consumando il cambio dei vertici della Cassa depositi e prestiti e, anzi, è difficile pensare che il decreto possa andare da qualche parte prima che si risolva questa partita. Il risultato è che mentre il resto del mondo si interroga sul quando rendere l’accesso alla Rete un bene collettivo noi restiamo a discutere senza muoverci dalla casella di partenza. Non dobbiamo dimenticare che l’obiettivo deve rimanere comune: strapparci di dosso la lettera scarlatta di Paese pigramente connesso. E se proprio il decreto deve ruotare intorno a delle parole che siano quelle più importanti: cittadini e imprese connesse. Al più presto. Rem tene, Internet sequentur.