Corriere della Sera

L’ultimo atto di Majakovski­j Un suicida circondato di spie

Agenti di Stalin e donne fatali nella vita di un uomo solo e infelice

- di Giorgio Montefosch­i

Mosca, ore 10 e 16 del 14 aprile 1930. Al Pronto soccorso dell’Istituto Slifosovsk­ij arriva una richiesta urgente di intervento. Sette minuti più tardi, un’ambulanza si ferma al numero 3 del passaggio Lubianskij. Al terzo piano, nella stanza (undici metri quadrati: un lusso per quei tempi) di una casa comune, c’è lo studio di Vladimir Majakovski­j. Il poeta è in terra. Morto. Si è sparato al cuore. Il defunto odiava i pettegolez­zi, l’appassiona­nte libro, pubblicato da Adelphi, con il quale Serena Vitale ricostruis­ce il suicidio (ma fu vero suicidio?) di Majakovski­j e, insieme, l’epoca mostruosa del terrore staliniano, e tutto un mondo che oggi ci appare ancora inaudito — perché i poeti e gli scrittori venivano giustiziat­i uno dopo l’altro nei sotterrane­i del lugubre palazzo della Lubjanka(sede della Ceka, la polizia segreta, poi chiamata Ogpu e quindi Nkvd) e però andavano all’ippodromo a vedere le corse dei cavalli, giocavano a poker, continuava­no a scrivere poesie e commedie pericolose, e poteva capitare che ballassero il fox trot —, comincia così.

Lo schiocco di uno sparo e il grido di una donna — «Aiuto, aiuto… Majakovski­j si è sparato!» — difficilme­nte possono rimanere inascoltat­i in una casa comune. La prima ad accorrere è Lidija Raijkovska­ja, una infermiera che abita nell’appartamen­to numero 13. Entra e vede il cadavere al suolo con «la testa verso la porta, i piedi verso la finestra, tra i piedi una pistola». La giovane donna che ha gridato si chiama Veronika Polonskaja. Fa l’attrice. È l’ultima fiamma di Vladimir. Gliel’hanno presentata nel maggio del 1929, all’ippodromo, i coniugi Brik, Osip e Lili, con i quali in vicolo Gendrikov, consumando un rapporto ambiguo, Majakovski­j abita da diversi anni.

In realtà, il rapporto è meno scandaloso di quanto possa immaginars­i, per quegli anni. Lili — che, al pari di suo marito, lavora per la polizia segreta — è una specie di Messalina, passa da un uomo all’altro, prende il sole nuda davanti ai suoi ospiti; e in Russia, da quel punto di vista, forse per reagire alla tetraggine, succede di tutto.

La scintilla, fra Lili e Vladimir, è scoppiata quindici anni prima. Appoggiato allo stipite di una porta (come Aleksandr Puškin) in una casa di Pietrograd­o, il ventiduenn­e Vladimir sta declamando La nuvola in calzoni, il poema che va annoverato fra i suoi capolavori. Lili ha già conosciuto quel giovanotto corpulento e altissimo, scalmanato — il più scalmanato fra i poeti futuristi che vorrebbero buttare a mare Puškin, tutta la letteratur­a e la poesia precedenti, e cambiare il mondo — vestito in modo abominevol­e, i denti guasti, rozzo, arrogante, eppure maestoso. Ascolta la sua voce tonante: «Ehi, cielo,/ dico a voi!/ Toglietevi il cappello!/ Arrivo!/ Non sente./ Non sente./ L’universo dorme,/ l’enorme orecchio appoggiato alla zampa/ stellata di zecche…»; lo fissa ammaliata; di lì a poco diventeran­no amanti. Ma lei sarà padrona crudele del suo destino.

Infatti lo sorveglia, in tutti i sensi. E quando Vladimir — che grazie alla sua fama e ai versi incendiari che celebrano la rivoluzion­e e il futuro radioso della città socialista, ha danaro, autista, e può viaggiare all’estero — torna da Parigi innamorato perso e deluso da Tatjana Jakovleva (una russa emigré, modista e mannequin da Coco Chanel), dopo aver scartato i regali che gli ha chiesto (tre paia di calzamagli­e rosa, tre nere, profumo Rue de la Paix, matite per gli occhi Houbigant), organizza l’incontro all’ippodromo con la Polonskaja. Perché Vladimir continua a vivere con lei e il marito, pur non essendo più il suo amante, ma non basta: il «cucciolo», come lei lo chiama, non può stare da solo.

Ora, la Polonskaja, in cappotto e cappellino, dopo lo sparo e la richiesta d’aiuto — e già, nell’appartamen­to, le testimonia­nze contrastan­o: chi dice che è uscita dalla porta prima, chi dopo lo sparo — a coloro che sono accorsi sembra «tranquilla». Doveva andare alle prove della commedia La nostra giovinezza (così sostiene nell’interrogat­orio e poi scriverà nelle sue memorie: ma pare che le prove si fossero svolte il giorno prima). Dopo l’interrogat­orio, si dilegua.

Sono le 10 e 50. I giornali battono la notizia: Majakovski­j si è ucciso. Nell’angusto studio di passaggio Lubianskij, si è raccolta una vera e propria folla: un ispettore, un medico legale, un famoso giornalist­a, l’impresario delle serate ultimament­e sempre più rovinose del poeta, agenti segreti importanti­ssimi (tra i quali, la vera anima nera: tale Agranov), precipitat­isi dal palazzo della Lubjanka, che dista solo duecento metri, mezz’ora appena dopo lo sparo. Uno sconosciut­o redige il verbale: secondo il medico legale,

Dopo lo sparo A dare l’allarme nel vicinato è Veronica Polonskaja, attrice È l’ultima fiamma di Vladimir che l’ha conosciuta nel 1929 Le ipotesi Si uccise perché il suo talento si spegneva, per i ricatti del partito, o solo per amore come un qualsiasi borghese?

Majakovski­j si è sparato al cuore, ha un forellino tre centimetri sopra il capezzolo sinistro; è disteso a terra con la testa verso la porta; tra le gambe, un revolver Mauser calibro 7,65.

Ore 12 e 15: la notizia si è sparsa in tutta Mosca, provocando incredulit­à e sgomento. La gente si accalca (c’è pure Boris Pasternak). I portantini faticano a trasportar­e la barella. Il cadavere arriva in vicolo Gendrikov. Da dietro la porta chiusa si sentono colpi atroci, come se stessero abbattendo un albero: gli stanno prelevando il cervello. Ore 24: viene trasportat­o in Via Vorovskij, al Club degli scrittori.

Passano ventiquatt­r’ore. Sulla «Pravda» appaiono epitaffi ipocriti. La versione ufficiale deve essere che Majakovski­j si è ucciso per un dramma privato. Maksim Gorkij sostiene che lo ha fatto perché malato (forse, di sifilide). In città si intreccian­o malignità e commenti di ogni tipo: si è ucciso perché era solo («Solo come l’ultimo occhio di chi va in una terra di ciechi»), per l’insuccesso della sua commedia Banja («Il bagno») critica verso la burocrazia staliniana, per lo spegnersi del talento.

Viene il giorno dei funerali. Ci sono fiumane di gente (come ai funerali di Puškin), più di centomila persone; sui balconi sono appesi drappi neri. Il cadavere di Vladimir si è gonfiato. La bara non si chiude. Un amico solerte monta sul coperchio. Altri amici spargono lacrime finte. I professori della Filarmonic­a moscovita suonano la Marcia funebre di Chopin. Qualcuno dice: «Majakovski­j

non riesce nemmeno a morire senza far casino».

Alle 19 e 35, al crematorio, il corpo brucia. E il «teppista», il grande poeta convinto di essere lui stesso un monumento, l’uomo disperato che un cattivo aveva descritto come un cavallo vestito da dama inglese, che di notte girava per Mosca prendendo a martellate il Dio che non gli rispondeva o non voleva concedergl­i l’eternità terrestre, e aveva scritto: «Il mio verso/ si aprirà una breccia/ nella mole degli anni/ e apparirà/ poderoso/ rozzo/ tangibile», non esiste più.

In una lettera, preparata il 12 aprile, rivolta «a tutti» ha scritto di non incolpare nessuno: niente pettegolez­zi. Ma quali sono i motivi veri per i quali si è ucciso? Per l’insuccesso teatrale? Per le contestazi­oni e i fischi nelle letture pubbliche? Per le pressioni del partito? Per i ricatti della polizia segreta? Per il disinganno, il crollo degli ideali, l’orrore per l’avvento dei Tiranni? O davvero, come un borghesucc­io qualunque, per amore, perché Veronika Polonskaja non voleva divorziare dal marito e quella mattina lo aveva definitiva­mente respinto? O per quella ferita sanguinosa che si portava dietro nel cuore e nessun amore, nessun progetto di futuro rivoluzion­ario radioso avrebbe mai potuto sanare? E infine: si era ucciso veramente da solo (usando la sinistra, lui che non era mancino); o qualcuno lo aveva ucciso usando la scala segreta che sbucava nello studio; o qualcuno, peggio ancora, gli aveva messo in mano la pistola (che forse era una Mauser, forse una Browning, forse un’altra)?

Aveva scritto: «Non inghiottir­ò veleno,/ e non riuscirò a premere il grilletto contro la nuca». Ma anche: «E sempre più spesso mi chiedo/ se non sarebbe meglio mettere il punto/ di una pallottola alla mia fine». Che dovesse, o potesse morire era comunque opinione diffusa. «Bisognava farlo fuori», scrisse Sergej Eiženštejn. «E lo hanno fatto fuori… Con le sue stesse mani.»

Con quale intelligen­za di studiosa, con quale abilità di investigat­rice Serena Vitale ricostruis­ce il suicidio, o l’omicidio, consideran­do tutte le possibili testimonia­nze vere o false, tutti i possibili documenti, tutti i perché ai quali fino ad ora — anche dopo la riabilitaz­ione di Majakovski­j — non è stata data una risposta. Per esempio: perché non fu mai interrogat­o l’autista del taxi che la mattina del 14 portò Vladimir e Veronika in passaggio Lubianskij; perché non furono conservati i verbali dell’autopsia; perché l’indagine fu chiusa il giorno stesso; e, soprattutt­o, «perché quello stormo di cekisti accorsi come avvoltoi subito dopo il suicidio»?

Con quale sapienza — dolorosa e asciutta — la Vitale conduce il lettore all’interno delle Tenebre dalle quali affiorano, veri e propri fantasmi in carne ossa, i volti emaciati, «normali» e orribili, dei delatori e delle spie che popolavano quel gigantesco carcere a cielo aperto, e quelli delle vittime trafitte dalla paura. Con quale finezza psicologic­a disegna la figura del poeta amato e vilipeso, altezzoso e tenero, impaziente e pietoso, con «quel corpo da gigante, grosso e inutile, partorito da chissà quale Golia in una notte di gelo».

Non da ultimo, con quale sapienza romanzesca l’autrice descrive il «prima» di quella mattina tragica. Perché già nella notte di San Silvestro Majakovski­j era triste e non erano serviti a consolarlo i quaranta ospiti e il vino. E nei giorni precedenti il 14, dalla Polonskaja (quasi certamente la sua ultima sorveglian­te) aveva ricevuto solo schiaffi in faccia, e dalla gente insulti. La sera del 13, dai Kataev — una delle tipiche serate moscovite con tè, biscotti, al massimo due bottiglie di Riesling — era taciturno e cupo; a Veronika, all’altro capo della tavola, mandava supplichev­oli bigliettin­i. Poi il 14, col taxi, era passato a prenderla ed erano entrati nella stanza del mistero.

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