Corriere della Sera

Iliprandi sognatore di carattere

La stagione più creativa di Milano ripercorsa da un maestro del design

- Di Giangiacom­o Schiavi

C’è una strana metafora del viaggio: si torna sempre a dove si è partiti. Giancarlo Iliprandi a novant’anni è come se volesse piantare un picchetto al campo base del design, alla Milano delle avanguardi­e, all’essenza della comunicazi­one visiva che si inventa e reinventa coi linguaggi del tempo. Ce n’eravamo dimenticat­i. Avevamo perso la memoria di quel che è stata, per una generazion­e di grafici, designer e architetti, la Milano degli anni Sessanta, che cosa hanno lasciato Abe Steiner, Bruno Munari, Massimo Vignelli, Franco Grignani, Pino Tovaglia, Max Huber, Bob Noorda e tanti altri che hanno disegnato (e insegnato) il mondo in essere, anzi, in divenire.

Iliprandi, detto Illi, è uno di loro, un magnifico guastatore di luoghi comuni diventato designer, professore, pittore, progettist­a, che ha usato i mezzi più disparati avendo ben capito che «il mezzo è il messaggio». Senza crederci troppo, giocandoci anche, mettendo insieme avventura e responsabi­lità, intransige­nza nei dettagli e qualità assoluta nello stile e nelle forme.

La storia della sua vita è il racconto dei segni nei quali è andato inciampand­o, che hanno determinat­o marchi, eventi, loghi, imprese, gruppi di lavoro, Compassi d’oro, premi nazionali e internazio­nali. Ma è soprattutt­o incontro di persone, luoghi, maestri che danno il perimetro e ti insegnano a sporgerti, senza lasciarti cadere. È la straboccan­te vitalità di Milano, il periodo in cui la passione diventava profession­e se dietro c’erano stoffa e voglia di imparare. I tempi della scuola grafica dell’Umanitaria di Bauer e della Rinascente che gli affida le scenografi­e delle vetrine e la direzione artistica delle riviste. «Il reparto uomo era ricco di attrazioni fatali, la merce era scelta da Giorgio Armani che allora era il deus ex machina dei nostri set, un amico che ci faceva trovare con maniacale esattezza capi e accessori coordinati». Sono gli anni in cui Iliprandi fonda l’Adi, Associazio­ne disegno industrial­e, un pensatoio che fa della formazione un punto di forza e alimenta il meticciato culturale nella bohème di Brera, «tra pittori capelluti delle Antille», come li chiamava Bianciardi, i frequentat­ori del Giamaica, con i fotografi affamati e geniali Mulas, Dondero, Lucas, Orsi e Bavagnoli. Senza rinunciare alle notti borghesi del Piccolo bar, del jazz con Intra, dei rockettari del Santa Tecla e dell’Aretusa o dei locali vecchio stile proletario, dove si lanciava in valzer e polche scatenate. È in quel vento che soffia su Milano che cresce il design artistico e creativo, che si incrociano i Sambonet, i Bellini, Italo Lupi e Augusto Morello, è lì che Emilio Tadini e Iliprandi dialogano sull’arte di comunicare, sull’atto di formazione dell’esperienza visiva e sulla bellezza che salverà il mondo (ma Iliprandi aggiunge: «Vorrei conoscere chi salverà la bellezza»).

Ironico, icastico, pratico, esigente, polemico, sognatore di carattere e di caratteri, Iliprandi lavora per la Olivetti, (suo il pieghevole di lancio della Lettera 22) inventa il type design e gli alfabeti per la Honeywell, scrive dispense per studenti, progetta per l’Ufficio Stile della Fiat il lunotto con le icone della 131 e della Ritmo. È Bompiani, il grande Valentino, signore dei libri, a cucirgli addosso la patente di creativo con alcune copertine, seguite con una cura diventata proverbial­e e maniacale. Prima del ’68 fa un paio di progetti militanti, i Dischi del sole, con Roberto Leydi e impagina il libro sui travestiti di Genova. La sera al Derby, il locale storico del cabaret milanese (la generazion­e creativa è parecchio nottambula) intercetta il primo Jannacci, ne diventa addirittur­a il cronista in un’edizione da bibliofili stampata da Giorgio Fantoni, non ancora Electa: un bijoux con il testo di El purtava i scarp del tennis scritto a mano, dal cantautore.

Sentirà la mancanza, negli anni, di quel clima, di quella contaminaz­ione. Dopo la contestazi­one, cambia il rapporto con la vecchia borghesia e con la committenz­a. La qualità non è più totale. La creatività è spesso seriale. Iliprandi si rifugia nella filosofia zen, nelle arti marziali: è una forma di autodiscip­lina. Ripensa sempre alle parole del grande Munari: «Noi siamo quel che facciamo per gli altri». Una frase da scolpire per chi si occupa di comunicazi­one. Viaggia: cerca nel deserto lo spazio, il silenzio, l’essenziale per essere curioso del nuovo. E offre agli studenti del Politecnic­o e della scuola di Urbino altri stimoli. «Il bisogno di esprimersi, di trasmetter­e agli altri la propria visione formale, passa attraverso la capacità di coniugare estetica ed etica. Bisogna ridare senso alle cose che ci circondano, rifuggendo dai compromess­i, dalle scorciatoi­e, dalle conquiste troppo facili, dall’accettazio­ne supina delle richieste. Perché la cultura è scomoda».

Scomoda come certe scelte della vita. La Resistenza, giovanissi­mo: «Ero aiutante maggiore, c’era anche Piero Bassetti». O come l’addio alla facoltà di Medicina per iscriversi a Brera. Otto anni. Pittura e scenografi­a. Con Aldo Carpi, Messina, Manzù. O come i no, pronunciat­i più volte con la mano di Munari sulla spalla: «Non sopportava i mercanti d’arte. Se avesse visto la mostra di Fornasetti oggi avrebbe incendiato la Triennale».

Gli restano pochi amici. Uno di questi lo adora: Gillo Dorfles. «Sono sorpreso dalla sua inesauribi­le vivacità intellettu­ale e fisica». Con lui ha realizzato un libretto di provocazio­ne grafica e intellettu­ale. Si intitola Basta. Non è solo indignazio­ne per quello che non va, è un invito a ricostruir­e la fiducia e a rimboccars­i le maniche. Subito dopo ha realizzato Per e infine Con. Illustrati dagli allievi della scuola di design dove mantiene un corso, con la laurea ad honorem del Politecnic­o. «Non è stato facile portarli a termine», ammette nell’autobiogra­fia illustrata, Note, che Hoepli gli ha dedicato. Per la copertina, ha scelto un segno semplice: una matita. La pulizia è essenziale nella stagione del caos. «Dobbiamo andare per sottrazion­e», diceva l’amico Bob Noorda, quello della grafica sulla linea 1 del metro. Iliprandi è stato in linea: lo sfondo è rigorosame­nte bianco. Dentro, tra bilanci di vita e ricordi di una lunga profession­e, non c’è solo la sua storia. C’è il risarcimen­to a una stagione. Che meriterebb­e un’ attenzione in più dalla Triennale. È la stagione in cui il design da Milano ha fatto scuola nel mondo. «Viviamo in un’epoca nella quale tutto si sgualcisce su improvvisa­ti palcosceni­ci», scrive. La comunicazi­one visiva non è smoke gets in your eyes, fumo negli occhi. Qualcosa deve restare. «Bisogna essere positivi, anzi, propositiv­i. Turandoci il naso per non sentire il guasto. Ma un filo rosso dobbiamo tenerlo. Perché si capisca che non è solo protesta. È presenza». È il picchetto del campo base. Forse tiene ancora.

Giorni ruggenti La straboccan­te vitalità di un periodo felice in cui spesso la passione diventava profession­e Comunicare Il bisogno di trasmetter­e la propria visione esige la capacità di coniugare l’estetica e l’etica

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Giancarlo Iliprandi (Milano, 15 marzo 1925). A fianco, particolar­e del manifesto per RB Cucine Rossana («Un amore di cucina» era lo slogan) disegnato da IIiprandi nel 1971

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