Il dramma di un padre malato scivola sui toni della commedia
Mark Ruffalo affetto da disturbo bipolare nella storia di una famiglia in crisi
Che l’esordiente regista Maya Forbes venga dalla sceneggiatura (ha firmato, tra le altre, quelle di The Rockeril batterista nudo, Mostri contro Alieni e Diario di una schiappa: vita da cani) è la prima cosa che balza all’occhio vedendo Teneramente folle, il film con cui si misura per la prima volta con la macchina da presa.
Commedia familiare su un padre inaffidabile a cui però la madre è costretta ad affidare le due figlie, il film cammina lungo i binari di una ben oliata struttura narrativa, dove la speranza del lieto fine — sempre rimandata ma anche sempre rimessa in gioco — guida con i suoi lunghi fili l’andamento della storia. Ad «interferire» ogni tanto con un percorso che procede tranquillo su un terreno piacevolmente in discesa sono appunto le invenzioni di scrittura che regalano al film spunti di riflessione capaci di gettare altra luce sul percorso del film, di suggerire possibili deviazioni o soste o stimoli e che nascono tutti dalla sceneggiatura e dalla sua capacità evocativa. Mentre — all’opposto — la messa in scena (professionale ma anche senza impennate di originalità) sembra sforzarsi di rendere tutto il più levigato e scorrevole possibile.
La storia è quella di un uomo, Cameron Stuart detto Cam (Mark Ruffalo), che scopre di essere seriamente affetto dalla sindrome bipolare. Il problema è che questa scoperta — non della sindrome ma della sua gravità — la fa sulla sua pelle la moglie, la deliziosa Maggie (Zoe Saldana). Il film inizia nel 1967, quando la convinzione di «vivere in un’epoca folle» aveva fatto sì che la malattia di Cam si confondesse con un diffuso stato esistenziale. Undici anni dopo, nel 1978, consumato il matrimonio e nate due figlie — Amelie (Imogene Wolodarsky) e Faith (Ashley Aufderheide) — quando il «folle» entusiasmo generalizzato si era volatilizzato di fronte alla crisi economia (e politica), Cam deve farsi ricoverare in un centro d’assistenza e Maggie impara sulla propria pelle la difficoltà di dover occuparsi da sola di due figlie. Soprattutto perché la ricca famiglia del marito si limita a passare solo quanto basta per pagare l’affitto di casa.
Ambientato in una Boston molto conscia del proprio aristocratico classismo, il film mette la donna davanti a una scelta che non ha alternative: iscriversi (nella più democratica) New York a un master che le permette di aspirare a un buon lavoro e lasciare le bambine alla cura del marito, appena uscito dal centro di assistenza.
A questo punto, costruite le premesse per una situazione potenzialmente interessante — riuscirà un padre svitato a fare il proprio dovere di genitore? — la regista e sceneggiatrice fa avanzare il film lungo i binari della commedia, dove il divertimento nasce dal rovesciamento dei ruoli: il padre si comporta come un ragazzo svitato e imprevedibile, le figlie cercano di correre ai ripari costruendogli tutt’intorno una barriera «difensiva». Mentre il film rimette continuamente in discussione i risultati che l’uno o le altre riescono a raggiungere.
Tutto previsto e tutto (più o meno) prevedibile, interpretazione gigionescamente sopra le righe di Mark Ruffalo compresa,
Lei deve lavorare ed è costretta lasciare le bambine alla cura del marito, appena uscito dal centro di assistenza
se non fosse che ogni tanto la sceneggiatura lascia filtrare qualche squarcio di «realtà» che alza la temperatura (e l’interesse) del film.
Ho già detto della dicotomia Boston/New York e della componente aristocratica e classista che sembra sovrintendere ogni cosa (divertente quando sottolinea l’eccentricità di alcuni «sopravvissuti», molto meno quando mostra le conseguenze che questa situazione può avere sul futuro dei bambini. Per esempio rispetto alla possibilità o meno di iscrivere a una buona scuola).
Ma Maya Forbes riesce a punteggiare il film di molte altre piccole «aporie»: quando una battuta del vicino di casa rivela la difficoltà a far passare nell’opinione comune una maggiore elasticità nei ruoli domestici uomo/ donna; quando un colloquio di lavoro smaschera implacabilmente i pregiudizi antifemministi di chi pensa che famiglia e impegno lavorativo non possano conciliarsi; quando il colore della pelle diventa un problema di identità per le due figlie. Tanti piccole «incrinature» della storia che, se meglio sfruttate, avrebbero potuto aumentare l’ambizione del film.