Trapianto di cuore e le nuove sfide
L’articolo di Giuseppe Remuzzi sui successi della trapiantologia in 60 anni di storia («Quei milioni di anni di vita guadagnati», Corriere, 1 giugno) non può che essere sottoscritto da chi lavora in un Centro trapianti, ma suscita un commento . L’autore scrive che «persone destinate a morire tornano a una vita normale». Sebbene esistano distinzioni tra i diversi organi e il concetto di normalità sia soggettivo, la vita di un trapiantato non è proprio normale: terapia immunosoppressiva ( che può causare linfomi con incidenza dal 10 al 20%), polifarmacoterapia, biopsie periodiche. Nella migliore delle ipotesi il trapianto è un’altra malattia con buona qualità e aspettativa di vita (nel trapianto cardiaco la sopravvivenza a 5 anni dall’intervento raggiunge il 75%). Queste note di realismo statistico non possono certo ledere l’immagine elevatissima di cui gode il trapianto, in virtù della sua essenza miracolosa. Tuttavia per precisione si dovrebbe aggiungere che con pari investimento di risorse si potrebbero guadagnare milioni di anni di vita in campi sanitari molto meno spettacolari: si pensi ai mancati interventi di vaccinazione o potabilizzazione delle acque, che uccidono milioni di bambini non lontano da qui. L’Uomo e lo Scienziato sono attesi da due sfide parallele e prometeiche: il primo deve superarsi, andare oltre se stesso, maturare la cultura della donazione. Il secondo deve inventare organi artificiali perfetti; quando accadrà la donazione non sarà più necessaria, diversamente dall’uomo capace di tanto dono. Lo stellar accomplishment consisterà dunque nel rendere non necessario un dono. Ps: mentre scrivo qui a Bologna è appena arrivata la telefonata di un cuore in arrivo per un trapianto. Stanotte qualcuno riceverà il cuore di un altro uomo. A pochi metri da me passeggia un