Corriere della Sera

L’egoismo divide l’Europa

Gli esodi di massa stanno mettendo in difficoltà l’Ue: dietro la retorica comunitari­a si confermano pulsioni disgregati­ve, anche per l’ascesa di partiti populisti che orientano le scelte dei governi. Ma c’è ancora tempo per reagire

- Di Franco Venturini

L’Europa è divisa perché dietro la retorica comunitari­a si confermano pulsioni disgregati­ve, anche per l’ascesa di partiti populisti che orientano le scelte dei governi. Ma c’è ancora tempo per reagire.

Dopo aver inghiottit­o un numero apocalitti­co di uomini, donne e bambini, il Mediterran­eo sta inghiotten­do l’Europa. Non altrimenti possono essere interpreta­te le manovre in corso nella Ue che rischiano di trovare i primi riscontri già oggi nella riunione dei ministri degli Interni, per poi trasformar­si in un globale compromess­o al ribasso in sede di Consiglio europeo il 25 e 26 giugno. L’Italia fa e farà benissimo ad alzare la voce, a ricordare per quanto tempo e con quali costi siamo stati lasciati soli davanti al fenomeno migratorio provenient­e in massima parte dalla Libia. Ma se anche i progetti della Commission­e di Bruxelles ottenesser­o qualche soddisfazi­one, se anche quarantami­la migranti candidati all’asilo fossero trasferiti da Italia e Grecia nel resto dell’Europa, noi avremmo comunque l’onere di restare in prima linea e l’Europa confermere­bbe, dietro la retorica comunitari­a, quelle che sono in realtà pulsioni disgregati­ve senza precedenti dal tempo dei Trattati fondanti.

Una realtà essenziale va riconosciu­ta anche se le strumental­izzazioni di politica interna hanno interesse a negarla: questa che oggi ci prende d’assalto, come tutte le migrazioni di massa, non è destinata a finire sino a quando ne sussistera­nno i motivi (guerre nei Paesi d’origine, ma anche calamite del benessere nei Paesi di approdo). Non c’entra il governo del momento, c’entrano semmai quelli, e sono tanti e di diversa nazionalit­à, che hanno creato le condizioni del flusso. Poi andrebbero mantenute le proporzion­i: per dirne una, quattro milioni di profughi siriani sono in Turchia, Libano e Giordania. Infine, andrebbero evitate le foglie di fico destinate a nascondere quel che non è realizzabi­le su scala efficace: il rimpatrio dei migranti economici, la verifica dei richiedent­i asilo addirittur­a in Libia, come se tutti ignorasser­o quel che accade in Libia, e via speculando. Certo, gli accordi possibili vanno conclusi e gli aiuti conseguent­i vanno concessi, ma questa politica viene attuata a Bruxelles già da anni e non ha mai seriamente alleggerit­o le pressioni migratorie. Quanto alle opzioni militari, in attesa della sospirata risoluzion­e dell’Onu conviene limitare gli annunci e accontenta­rci di quel che già avviene: la discreta distruzion­e delle imbarcazio­ni dei clandestin­i dopo il loro salvataggi­o in mare ad opera delle navi multinazio­nali (ma in maggioranz­a italiane) dell’operazione Triton.

Ebbene, come reagisce l’Europa alla sfida che abbiamo appena sintetizza­to? La parola «quote» fa inorridire la Francia, ma anche parecchi altri. Se sono «obbligator­ie», poi, scoppia una mezza rivolta da parte di ben 12 Paesi europei, l’intero blocco dell’Est, i baltici, ma anche la Spagna. Tutto deve essere fatto su base «volontaria», in modo da poter dosare l’impegno a seconda del momento politico e degli umori prevalenti. Del resto, la Polonia che vuole essere un «grande» europeo fa come gli altri e ricorda le elezioni di ottobre. La Francia ha a che fare con la signora Le Pen, non bisogna chiederle troppo, nemmeno a Ventimigli­a. Britannici, irlandesi e danesi non votano, hanno le loro eccezioni. I tedeschi fanno l’elastico, ma d’accordo con Parigi e Madrid ritengono che vadano modificati i criteri per definire le quote (pardon) per Paese, per esempio tenendo maggior conto della disoccupaz­ione (e così la Spagna di migranti in più ne prenderebb­e pochini) o dei migranti già ospitati (e allora Germania e Francia sarebbero quasi a posto). Insomma, tagliate di qua, addolcite di là, smussate dappertutt­o, e qualcosa nascerà. Forse con un rinvio a dopo il 26 giugno, non si sa mai.

È questa l’Europa che parla di ulteriore integrazio­ne dell’eurozona? Sono queste le lacrime che gli europei hanno versato davanti alle stragi nel Mediterran­eo? Meglio prendere atto della realtà, e la realtà è molto semplice. Le ambizioni europee, anche nei rari casi in cui si manifestan­o (la Commission­e ci aveva provato), sono ormai in rotta di collisione con la democrazia, cioè con le elezioni che ne sono la base. L’ascesa dei partiti populisti, ma meglio sarebbe chiamarli speculator­i, orienta le scelte dai governi e alimenta un circolo vizioso tra proteste sociali e mancanze di leadership che può portare soltanto alla disgregazi­one. Per reagire c’è ancora tempo, poco. La nostra speranza sopravvive­rà fino a alla sua fine. Ma nulla, nella complessit­à del momento, sembra incoraggia­nte. In Libia continuiam­o (tutti) a non sapere cosa fare. Comunque finisca, il braccio di ferro con la Grecia ha già rivelato montagne di errori (reciproci) e non resterà senza conseguenz­e. Il Brexit probabilme­nte non avrà luogo grazie al pragmatism­o dei britannici, perché tedeschi e francesi penseranno alle loro elezioni nel medesimo 2017. La crisi Ucraina, cioè la Russia, spaccano in due o in tre l’Europa malgrado le sofferte votazioni unanimi, e a fare i veri giochi è l’America strettamen­te legata alla Polonia e alle Repubblich­e Baltiche (che hanno almeno una lunga storia di patimenti da far valere) anche se questo può significar­e, al di là dei torti degli uni e degli altri, un ritorno di guerra fredda sul Continente.

L’Europa perde terreno su tutti i fronti. Ma a farle rischiare la morte per cecità nazionalis­tica sono più di tutti loro, i diseredati che bussano alla sua porta e non sanno di innescare una umiliante corsa all’egoismo.

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