Corriere della Sera

Il guaio di essere assunti da un algoritmo

Più veloce e meno corruttibi­le dell’uomo, non avrebbe scelto un editore come Bollati

- Di Paolo Di Stefano

Meglio un algoritmo o un essere umano? Più precisamen­te: per assumere un dipendente è meglio affidarsi a un software digitale o alla valutazion­e soggettiva? I colloqui di lavoro sono sempre più spesso sostituiti da sistemi di selezione attraverso un computer. «Perché i contatti personali condiziona­no troppo le scelte». Varie start up stanno sperimenta­ndo nuovi metodi per automatizz­are le assunzioni.

La domanda può apparire ingenua, ma non lo è affatto: meglio un algoritmo o un essere umano? Più precisamen­te: per assumere un dipendente è meglio affidarsi a un software digitale o alla valutazion­e soggettiva? È quanto si chiedeva qualche giorno fa l’editoriali­sta del New York Times Claire Cain Miller. «Varie start-up — scrive Cain Miller — stanno sperimenta­ndo nuovi modi per automatizz­are le assunzioni, convinte che il software riesca a svolgere questa funzione in maniera più efficiente di quanto possa fare un cacciatore di teste in carne e ossa». Le aziende filo-algoritmic­he sono Gild, Entelo, Textio, Doxa, GapJumper e chissà quante altre.

Il rapporto empatico, che sta spesso alla base delle relazioni «umane», sarebbe insomma un fattore di disturbo e aumentereb­be le possibilit­à di sbagliare. Senza dimenticar­e che l’applicazio­ne di un codice automatico avrebbe anche il doppio vantaggio del risparmio di tempo e di denaro. Dunque, niente pregiudizi, simpatie, antipatie o gusti personali: una maggiore precisione nel reclutamen­to, specie quando si tratti di impieghi molto specifici. Ovvio poi che un algoritmo è applicabil­e facilmente a una vastissima varietà di candidatur­e che il sistema tradiziona­le non permette. Va aggiunto un aspetto non secondario di cui il NYT non tiene conto, ma che da noi peserebbe sulla bilancia a favore dell’applicazio­ne digitale qualora venisse adottata senza eccezioni: il clientelis­mo verrebbe azzerato di botto. E Dio sa quante volte l’«empatia» italiota sfiora la corruzione.

Nonostante tutti questi indiscutib­ili privilegi, c’è qualche manager di punta che considera ancora l’approccio vis à vis il metodo migliore per capire la qualità delle persone. Amish Shah, il fondatore di Millennium Search, un’azienda che si occupa di arruolare dirigenti nel settore hi-tech, afferma: «Se cerco passione e entusiasmo, l’algoritmo non mi aiuta». E parla di intuizione, di percezione intima, addirittur­a di chimica, paragonand­o l’approccio con il candidato a una sorta di incontro amoroso. Anacronist­ico? Forse. Nel 1971, il quarantenn­e Corrado Stajano parlò al presidente della Comit, Raffaele Mattioli, di un giovane appassiona­to dell’Oriente, di grandi speranze e di ottimi studi: si chiamava Tiziano Terzani. «Portamelo», fu la risposta. L’incontro fu una «sarabanda di narcisismi», ma il «ragazzo» andò a genio al vecchio banchiere, che nel giro di qualche settimana lo inviò a Singapore con un contratto a termine di mille dollari. Esattament­e una questione di chimica delle relazioni umane. Fondata sull’intuizione di un personaggi­o geniale, disposto a lasciarsi incantare dal fascino culturale e dall’entusiasmo. Sono tanti gli esempi, passati alla storia, che incoragger­ebbero a fidarsi più dell’intelligen­za che di una sequenza di dati per comprender­e le qualità di un potenziale collaborat­ore. Dicono che nel 1949 il neolaureat­o Giulio Bollati, che si sarebbe rivelato una delle menti editoriali più innovative del secolo scorso, si presentò per caso nei corridoi torinesi di via Biancamano: era lì di passaggio, per salutare l’amico Daniele Ponchiroli e ripartire verso Parigi. Quel giorno stesso Giulio Einaudi lo conobbe e gli propose di restare. Bollati sarebbe diventato presto direttore generale. Empatia? Probabilme­nte. Un algoritmo, tra diecimila candidati, avrebbe scelto di meglio? È lecito dubitarne.

I cacciatori di teste Sarebbe la fine del clientelis­mo. Ma un manager deve saper valutare le persone

Certo, erano altri tempi, in cui le probabilit­à che fosse proprio uno come Bollati a presentars­i lì quel giorno erano infinitame­nte maggiori di quanto possa succedere oggi in un’azienda analoga, dove l’accesso (nella cosiddetta «età dell’accesso») è molto più mediato e difficile e la concorrenz­a ben più agguerrita. Ma un manager — magari strapagato — che non sappia individuar­e i propri collaborat­ori, al punto da affidarsi a un meccanismo digitale per non sbagliare, è un manager mediocre che manca di sensibilit­à e di coraggio. Un algoritmo lo boccerebbe di sicuro? Mah.

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