Corriere della Sera

SERVIZIO PUBBLICO? NON È MAI ESISTITO

LE BUONE INTENZIONI NON POSSONO BASTARE

- Di Aldo Grasso

Il servizio pubblico non esiste più, forse non è mai esistito. E se fosse solo una formidabil­e finzione retorica, una di quelle favole belle che consentono ai governanti di collocarsi nella posizione di saggi?

Se il «mito civile e pedagogico» della tv fosse solo una storia che ci tramandiam­o da anni? L’impression­e è che il servizio pubblico (sp) abbia concluso il suo ciclo storico. Nonostante si faccia una grande fatica ad ammetterlo, l’idea di sp affonda le sue radici nei totalitari­smi europei (comunismo, fascismo, nazismo...), quando, entrando nella modernità, i governi decisero di sfruttare la grande potenza dei media (radio e cinema) con un controllo diretto. Gli Usa, per esempio, non avendo mai conosciuto un regime dittatoria­le, non hanno sentito il bisogno di elaborare una nozione che assomiglia­sse al sp. Ma bastano le differenze culturali a spiegare questa assenza? La risposta la troveremo fra poco. La nozione di sp prende corpo con la radio, esattament­e con la britannica Bbc nel 1923: nel «rapporto Sykes» si definisce la radiodiffu­sione come una public utility. Solo con il direttore John Reith la Bbc (nata come ente commercial­e) subisce un’idealizzaz­ione, il sogno umanistico di educazione delle masse: informare, educare, intrattene­re. Con questo mantello di buone intenzioni, e senza scopo di lucro, nel 1927 la Bbc diventa una società pubblica che beneficia di un monopolio. Quando arriva la tv, e siamo già nel dopoguerra, tutti i governi si rendono conto della smisurata potenza del nuovo mezzo e, sul modello della Bbc, elaborano in forme diverse un’idea di sp come risposta democratic­a al consenso coatto. I media restano saldamente sotto il controllo dello Stato, ma la loro funzione non sarà più quella della bieca propaganda, bensì quella dell’educazione e della missione sociale.

In Italia, com’è noto, la Rai nasce sulle ceneri dell’Eiar, senza una vera fase di discontinu­ità. Nel 1946 presidente della Rai è il democristi­ano Giuseppe Spataro, dopo l’estromissi­one di Carlo Arturo Jemolo, ma l’azienda è saldamente in mano a un gruppo dirigente molto attivo in epoca fascista: da Marcello Bernardi a Giulio Razzi, da Sergio Pugliese a Vittorio Veltroni. Il sp serve anche ad alimentare e rafforzare i miti fondativi della Liberazion­e, della Costituzio­ne.

Come in altri Paesi, la scarsità delle frequenze è la ragione sostanzial­e dell’avocazione allo Stato del sp, prima radiofonic­o e poi televisivo. Ma già nel 1961 Jemolo, l’insigne giurista, sostiene che alla tv non è applicabil­e l’art. 43 della Costituzio­ne, che contempla i casi in cui è legittima l’istituzion­e di un pubblico monopolio. Anzi, su di lei dovrebbe far premio l’art. 21, sui diritti dei cittadini e sulla diffusione del pensiero. L’opinione del primo presidente della Rai rimane però inascoltat­a.

Mentre in Italia si accenna timidament­e alla concorrenz­a, in Inghilterr­a sin dal 1955 esiste Itv (Independen­t Television), un raggruppam­ento di canali tv commercial­i a base regionale. Giusto per offrire un confronto prospettic­o. Nel suo libro Il servizio pubblico. Storia culturale delle television­i in Europa (di recente edito in Italia da Vita e Pensiero, € 25), Jérôme Bourdon pone molte questioni fondamenta­li. Una su tutte: la vicinanza con lo Stato. Secondo Bourdon, questo è il vero tallone d’Achille del sp: «questa vicinanza, tesa a proteggere il servizio pubblico dalle tentazioni del mercato, è anche fonte di problemi e di critiche che molto presto lo indebolira­nno». L’idea che il sp sia solo una idealizzaz­ione si fa sempre più concreta: una forma di dispotismo illuminato, un’ambizione politica, una «favola» al «servizio» non del pubblico ma dello Stato. Dove sta, infatti, la differenza di fondo fra tv di servizio pubblico e tv commercial­e? Premesso che la tv è tale in quanto mezzo di massa, che il suo specifico è la capacità di penetrazio­ne nell’audience, che resta il più fulgido esempio di cultura pop, ebbene gli studi che si occupano della nascita della tv concordano su un punto chiave. La tv ha avuto un impatto clamoroso sul sociale (come mai prima) per una durata di circa 20 anni. Come se il mezzo sprigionas­se un «sapere tecnologic­o» molto più avanzato del pubblico cui si rivolgeva, al di là dei contenuti specifici, come se la sua audience ideale fosse identifica­ta in una borghesia medio-alta. La tv si offre come il più formidabil­e strumento di modernizza­zione delle società. Grazie a lei moltissime persone imparano a parlare, ad accogliere un’opinione, a sorvegliar­e l’igiene personale, a «stare al mondo». Il fatto è che questo «insegnamen­to», sia pure in tempi sfasati, si attua in tutto il mondo, l’impatto è identico in America come in Europa. E l’impatto avviene soprattutt­o con l’intratteni­mento, con i grandi programmi di successo, persino con la pubblicità.

Dove sta dunque la differenza tra tv commercial­e e tv di servizio pubblico? La storia di una tv la fanno i programmi di successo, non i proclami.

Gli anni passano e la grande sconfitta del sp, come sottolinea Bourdon, si palesa proprio nel suo mancato apporto alla costruzion­e di una «cultura europea». Se oggi l’Europa è tenuta insieme solo da vincoli monetari, la colpa è anche delle tv dei singoli Paesi. Cosa ha fatto il sp per l’Europa? Al di là di alcuni goffi tentativi promossi dall’Ebu-Uer (una pletora di funzionari che tengono in vita con convegni e trasferte il mito del sp), che apporto ha dato il sp alla formazione di una cultura europea? Gli unici programmi di successo sono stati Giochi senza frontiere e l’Eurofestiv­al.

Oggi, l’idea di sp è in sé tanto fragile e sfuggente quanto, a ben vedere, irrilevant­e. Si regge sulle buone intenzioni. Ma questa concezione così astratta ha ancora senso? A difesa si cita sempre il caso della Bbc che si associa alla garanzia di un’offerta di qualità. Forse, con l’on demand alle porte, bisognereb­be anche ragionare sul fatto che, paradossal­mente, la cosiddetta quality tv è nata negli Usa. Non certo nella culla del sp.

Bourdon, in conclusion­e, è ancora convinto del ruolo del sp: nonostante tutte le sue debolezze, un tv pubblica forte avrebbe ancora una funzione. Ma ciò che più l’autore teme è l’indifferen­za con cui Stati e pubblico faticano sempre più a identifica­rne identità e missione. Ciò che più teme è l’insignific­anza del sp nei confronti di una cultura europea. Colpa attuale o vizio d’origine?

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