Federer, sfuma il sogno Wimbledon a Djokovic
Nessun miracolo Il numero 1 del mondo si impone in quattro set Il sogno di Federer s’infrange contro il muro serbo Terzo trionfo a Wimbledon e nono Slam per Nole
Se immaginare un campo da tennis in salita ha un senso, in cima a questa collina di Wimbledon dove si parla più svizzero che cockney, l’arrampicata ha lasciato per una volta Roger Federer scompigliato e muto.
È seduto, le belle mani da suonatore di racchetta in grembo, triste e gobbo, come se tutto ciò che Novak Djokovic ha rappresentato in quattro set e tre ore di partita fosse stato tanto, troppo, da reggere. I 28 anni del serbo contro i suoi quasi 34. La freschezza atletica contro il logorio di sette Wimbledon, che lo lasceranno in compagnia di William Renshaw e Pete Sampras almeno per un altro anno. E infine un urlo da fondo così assordante e monocorde da aver disinnescato la varietà polifonica del gioco di Federer, che nel braccio destro ha più tennis di Djokovic e di tutti gli altri messi insieme ma, tradito da dritto e servizio (35 errori gratuiti) e meno concreto di quanto non lo fosse stato in semifinale con Murray (solo una palla break trasformata su sette: una miseria), ha smarrito per strada le parole per dirlo.
Djokovic fa tris sull’erba (nono Slam in carriera) perché Federer lo chiama poco a rete, perché è il n.1 del mondo, perché è buddista e vegano e fa meditazione prima dei match e perché, recuperato subito il break nel primo set (4-4 da 2-4) e dominato il tie-break 7-1, Roger rimane solo con il suo talento, e 15 mila tifosi che non riescono a convincerlo del miracolo. Sotto il bombardamento, attaccando per difendersi dai suoi stessi errori, Federer annulla un set point e s’infila in un secondo tie-break lunghissimo (12-10 tra sospiri ed emozioni), che mantiene vivo il sogno senza dissipare l’illusione. È chiaro a tutti, per la fatica che fa e l’intermittenza di quella luce interiore che va e viene, che non è più il Federer dell’unico set ceduto in tutto il torneo (Groth) e dell’unico break subito (Simon). La sfida che Djokovic gli propone è più alta, e sopra i sei scambi diventa impossibile vincere il punto. Cavando poco dalla battuta, a tratti Federer diventa lezioso: usa il fioretto quando servirebbero sonori schiaffoni.
Se sull’erba l’attaccante batte sempre il difensore, nel terzo set è Djokovic che, surfando sull’inerzia di una finale che gli spalanca le braccia ( e che un’interruzione per pioggia non fa deragliare), va a prendersi i break necessari a fare gli ultimi passi (6-4, 6-3) verso il terzo titolo di Wimbledon.
Il drittone a sventaglio che Roger guarda passare come certi vecchietti sulla panchina i tram, è il prologo all’iconografia di questa finale che lascia mortalmente deluso il popolo, senza nulla togliere a Djokovic, che ha il solo difetto di essere l’avversario di Federer. C’è il ciuffetto d’erba da raccogliere e masticare: «Non è mai stata così dolce… ». C’è il coach, Boris Becker (battuto l’antico rivale Stefan Edberg nel confronto a distanza tra guru), cui dedicare la vittoria nel trentennale del primo successo a Wimbledon del tedesco: 1985, a 17 anni, quando bruciare i tempi era vitale prima che i tempi bruciassero te. C’è Jelena, madre di Stefan, il figlio nato otto mesi fa, da onorare: «Grazie alla mia bella moglie».
Djokovic è un campione vero, gentile e ironico («Io sono un giocatore da fondocampo, non ho il talento di Roger: mi arrangio») però non è Federer. È cresciuto a Belgrado sotto i bombardamenti della Nato («Se c’è una cosa che ho imparato dallo sport è non arrendermi mai») e merita di essersi annesso nel 2015 due Slam su tre («Wimbledon mi ricompensa della delusione di Parigi con Wawrinka») però non è Federer. Ha sentimenti profondi e li esprime («Un anno fa, appena conquistato il trofeo, mi sposavo in chiesa e cominciavo una nuova vita. Quando torno a casa non sono il campione di Wimbledon: sono un marito e un padre») però non è Federer.
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Non si sente sbagliato, siamo noi che ogni tanto cerchiamo di farglielo credere. E poi c’è il vero Roger, cui tocca salutare la pletora di vip che Mirka gli infligge (ieri Hamilton, Del Piero, Bradley Cooper, Anna Wintour e Pippa Middleton, finalmente Pippa) quando avrebbe solo voglia di chiudersi in una stanza. «Vado in vacanza. Per capire. Per lasciare sedimentare tutto questo… » mormora.
È solo un arrivederci («Ho ancora fame, ho ancora voglia di tennis») ma sembrano, e non da oggi, prove tecniche di un lungo addio.