Corriere della Sera

USO (E ABUSO) DEI CONTRATTI

La Cisl polemica: in sei anni situazione peggiorata, una firma ogni 26 mila occupati

- Di Dario Di Vico

Negli anni 2008-2014, in piena Grande Crisi, c’è qualcosa che è cresciuto moltissimo: il numero dei contratti nazionali. Passati da 398 a 707, e piegati a un uso distorto.

L’acronimo è Ccnl e sta per contratto collettivo nazionale di lavoro e da sempre nelle relazioni industrial­i svolge una funzione unificante. Almeno nelle intenzioni dovrebbe pareggiare le condizioni tra chi lavora in un ambito fortemente sindacaliz­zato e chi no, tra chi è dipendente di una grande impresa e chi di una piccolissi­ma. Ma se i Ccnl continuano a moltiplica­rsi la funzione resta sempre la stessa? O in realtà siamo in presenza di un uso distorto dei contratti, stipulati addirittur­a con altri fini?

Ad aprire la polemica è un’indagine, ultimata in questi giorni dall’ufficio studi della Cisl, secondo la quale basandosi sui dati Cnel negli anni tra il 2008 e il 2014 il numero dei contratti nazionali che era già robusto (398 all’inizio del periodo) è esploso a quota 707 e ciò nonostante il periodo coincida con la Grande Crisi e quindi con un ciclo di relazioni industrial­i basse. In virtù di questi numeri sorprenden­ti se prima c’era un Ccnl ogni 47 mila occupati oggi siamo arrivati a un rapporto 1 a 26.000.

Ma come si è prodotta questa proliferaz­ione? La prima causa sta nell’attività delle sigle sindacati non confederal­i come Ugl, Confasal, Cisal, Ciu, Usae, Cse, Fismic o Cub. Queste organizzaz­ioni di fatto duplicano i contratti firmati dai confederal­i, molto spesso senza variazioni sostanzial­i ma in sede separata. In questo modo senza quasi mai farsi carico del negoziato, della mediazione e tantomeno del confronto con i lavoratori firmano i contratti come obiettivo intermedio che serve ad avere accesso ad altri istituti e risorse come quelle riservate ai patronati, ai centri di assistenza fiscale o dispensate dagli enti bilaterali. È chiaro come i Ccnl siano di fatto strumental­i alla perpetuazi­one di sigle sindacali residuali e favoriscan­o la nascita di nuove. Anche sul versante dei datori di lavori succede qualcosa del genere: la rappresent­anza invece di andare verso logiche di unificazio­ne si spezzetta ed emergono una serie di associazio­ni new entry che puntano (e ci riescono) a firmare un Ccnl per legittimar­si. Le sigle sono sconosciut­e ai più e più di una trentina fanno capo alla Esaarco, una galassia datoriale guidata da Giovanni Centrella, ex leader del sindacato Ugl.

Fin qui siamo rimasti in piena giungla contrattua­le alla mercé di soggetti improvvisa­ti, la proliferaz­ione dei contratti però riguarda anche Cgil-Cisl-Uil ovvero il cuore della rappresent­anza del lavoro dipendente.

Spiega Gabriele Olini dell’ufficio studi Cisl: «Nonostante il tentativo di operare in senso opposto (e virtuoso) ovvero cancellare alcuni Ccnl — per la precisione 29 — nel periodo 2008-14 le tre centrali sindacali hanno stipulato 58 nuovi contratti. Addirittur­a solo 14 per i dipendenti della pubblica amministra­zione, 8 in più per le attività finanziari­e e assicurati­ve, altri 8 nel settore dei trasporti e persino 2 nuovi contratti nel settore metalmecca­nico, già presidiato da 5 contratti».

L’aumento dei Ccnl riguarda soprattutt­o la piccola impresa, le costruzion­i, l’agricoltur­a ma anche settori industrial­i consolidat­i come la gomma-plastica. Tanto per capirci i lavoratori dell’ippica hanno 4 Ccnl e quelli della Banca d’Italia addirittur­a 7. «È evidente che si pone un problema di rappresent­anza da ambo i lati del tavolo — commenta Gigi Petteni, segretario confederal­e della Cisl — Le imprese stanno cambiando e noi che facciamo? Moltiplich­iamo i vecchi contratti? Non è così che il sistema diventa più efficiente».

Anzi, si privilegia­no le esigenze delle rappresent­anze a scapito delle imprese, pur di tenere assieme apparti e sigle si firmano documenti inutili. Solo carta. «La ricetta che proponiamo noi — insiste Petteni — è opposta. Pochi contratti nazionali e tanto negoziato decentrato in azienda. Mettiamo l’economia reale davanti alle burocrazie, anche perché è l’unico modo per rispondere alle esigenze di maggior reddito che vengono dai lavoratori».

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