L’idea (bipartisan) di una stretta per intervenire sulle pubblicazioni
Puntuale come il caldo d’estate, la nuova puntata di intercettazioni che investono la politica riaccende il dibattito sulla legge che dovrebbe regolare l’utilizzo e la diffusione dei colloqui registrati nelle inchieste giudiziarie. E l’ultimo caso — le frasi di Matteo Renzi captate mentre preparava lo sbarco a Palazzo Chigi, finite prima su Il Fatto e poi sugli altri giornali — rappresenta per il governo l’archetipo di ciò che non andrebbe divulgato; evitando che finisca in atti d’indagine destinati alla pubblicità, e successivamente sui mezzi d’informazione. Così si ragiona in questi giorni a Palazzo Chigi e nelle sedi degli altri ministeri interessati, sebbene ci sia un po’ di imbarazzo a invocare soluzioni proprio quando sono in ballo le intercettazioni del premier. Anche perché individuare i meccanismi utili a questo obiettivo è tutt’altro che semplice. Alla Camera si dovrebbe approvare prima delle ferie estive un testo di legge delega, contenuto nel più ampio progetto di riforma del processo penale, che per adesso prevede «prescrizioni che incidano anche sulle modalità di utilizzazione cautelare dei risultati delle captazioni, (...) avendo speciale riguardo alla tutela della riservatezza delle comunicazioni e delle conversazioni delle persone occasionalmente coinvolte nel procedimento, e delle comunicazioni comunque non rilevanti a fini di giustizia penale». Detto in termini più semplici evitare la pubblicazione non solo di ciò che non è penalmente rilevante, ma anche che non sia utile a definire «contesti» funzionali a individuare reati e responsabilità. Da destra si insiste per soluzioni drastiche, ma pure nel centrosinistra si fa meno fatica che in passato a immaginare qualche forma di «bavaglio». Fermo restando che nessuno, almeno a parole, vuole ridurre la possibilità di intercettare (anzi, la legge delega prevede di estendere l’uso delle micropsie ai reati contro la Pubblica amministrazione) i nodi restano l’inserimento delle conversazione negli atti e la loro successiva pubblicazione. Tra le varie proposte arrivate dai magistrati, quella che ha destato maggiore interesse è dei procuratori di Roma e Milano, Giuseppe Pignatone ed Edmondo Bruti Liberati. I quali hanno suggerito di rendere pubblicabile solo il contenuto dei provvedimenti giudiziari (ordini d’arresto o perquisizioni), vietando invece la divulgazione, almeno fino al rinvio a giudizio o alla cosiddetta «udienza filtro», del resto del materiale d’indagine. Anche se non più segreto, essendo a disposizione delle parti processuali. Con questa ardita distinzione, le frasi di Renzi e del generale Adinolfi non avrebbero potuto essere pubblicate, nonostante l’indubbio interesse collettivo. Particolare non irrilevante che fa dire all’ex presidente della Camera Luciano Violante: «Una nuova legge non la invocherei per questo caso, bensì per quelli in cui si dà in pasto la vita privata delle persone coinvolte del processo, o peggio estranee alle indagini».