Corriere della Sera

La firma dell’attacco al Cairo: il solito modello di autobomba

L’attentato al Consolato italiano, i dubbi sulla rivendicaz­ione dell’Isis

- DAL NOSTRO INVIATO Andrea Pasqualett­o © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

A qualche isolato dal Nilo di Bulaq, dove il palazzo storico del Consolato italiano è oggi un rudere dall’aspetto bellico, una certezza c’è e si chiama Tnt: tritolo. Duecentoci­nquanta chilogramm­i arrivati dal canale di Suez a bordo di un’automobile, una Speranza, esplosa ai piedi dell’edificio sabato mattina facendo un morto e 8 feriti, tutti egiziani, tutti civili.

Non è un dettaglio da poco, fanno notare al ministero dell’Interno egiziano che ha sfornato il dato. Perché lo stesso esplosivo è stato usato in altri tre attentati: il mese scorso per uccidere, sempre con un’autobomba modello Speranza, il procurator­e generale Hisham Barakat mentre transitava con un convoglio davanti all’accademia militare a Heliopolis, quartiere orientale del Cairo; prima di lui, per far saltare in aria il quartier generale della polizia egiziana di Mansoura, nel nord dell’Egitto, con un bilancio pesantissi­mo: 14 morti e 130 feriti; e prima ancora per attentare alla vita dell’allora ministro dell’Interno Mohammed Ibrahim, sfuggito a 150 chilogramm­i di Tnt.

Una raffica di attacchi con la stessa sostanza micidiale e una serie di gruppi estremisti a rivendicar­li, considerat­i vicini ai Fratelli musulmani, l’organizzaz­ione nemica dell’attuale presidente egiziano, il generale Abd al Fattah al Sisi, reo di aver rovesciato il governo di Mohamed Morsi a colpi di repression­i.

E allora, la rivendicaz­ione dello Stato islamico? Sulla «firma» dell’Isis, già dubbia per l’effetto «poco» sanguinari­o dell’attacco, graverebbe ora anche il peso del tritolo, nel senso proprio del termine: non 450 chilogramm­i come hanno scritto ma 250. Fonti di intelligen­ce pensano che la verità possa stare nel mezzo: «Siamo in presenza di un terrorismo jihadista molecolare, tanti gruppi, alcuni un tempo vicini ad Al Qaeda come Ansar Bait al Maqdis attivo nella penisola del Sinai, altri usciti dalla vecchia formazione dei Fratelli musulmani e approdati alla violenza». Sventolere­bbero la bandiera dello Stato islamico senza farne parte, ma caricando parole e numeri con la polvere da sparo per intimorire il governo.

Fin qui, la matrice dell’attentato. Poi c’è da considerar­e l’obiettivo: volevano davvero colpire il Consolato d’Italia? Al ministero dell’Interno del Cairo non hanno dubbi: «L’Italia è percepita come Paese amico del presidente Al Sisi, Renzi si è speso molto per il nuovo canale di Suez, ha promesso che a settembre verrà e tutto questo non piace a chi combatte il presidente». Come non piacerà che oggi il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni voli nel Paese delle piramidi per incontrare i suoi vertici.

Meno probabili gli altri scenari. Uno di questi vorrebbe il politico e avvocato Ahmed al Fuddaly bersaglio dell’esplosione. «E’ avvenuta poco prima che passassi di là, volevano uccidere me».

Alla polizia del Cairo, guidata da Allà Atea, sorridono: «Strumental­izzazione». C’è poi chi ipotizza che l’autobomba fosse destinata inizialmen­te al Ministero degli Esteri per poi essere dirottata sul Consolato. Motivo? « Mancanza di parcheggio», banalizza un quotidiano egiziano. Infine, l’indagine e i testimoni. Hanno trovato il proprietar­io dell’auto Speranza. «Forse gli è stata rubata».

Alla fine, i feriti risultano otto. Fra questi un’avvocatess­a, Nahala Ahmed, e i suoi tre figli di tredici, undici e sei anni. Poi ci sono i danni ai negozi e alle case: quaranta in tutto. Il venditore di bibite Hasan Mahmud è rimasto senza nulla: «Ma devo lavorare perché la mia famiglia muore».

Il settantenn­e Fathy Shihata ha gli occhi lucidi: «Pareti crollate, finestre in frantumi. Chi mi ripaga di tutto questo? Io ho sette figli. Rabena untekem memohom, che Dio li colpisca».

Movente Il ministero dell’Interno: «L’Italia è percepita come Paese amico del presidente Al Sisi»

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