Corriere della Sera

Stetoscopi­o e kalashniko­v Il Califfato a corto di medici invoca «aiuto» in Europa

- di Viviana Mazza DALLA NOSTRA INVIATA

È scomparso dall’università ed è riapparso in video, con lo stetoscopi­o al collo: «Parlo a tutti i musulmani d’Inghilterr­a, vi chiedo ancora una volta di lasciare quella terra e di intraprend­ere il viaggio. C’è una grande causa per voi qui, la carovana sta partendo».

Il ventitreen­ne Ahmed Sami Khader è uno dei nove medici inglesi, quattro ragazzi e cinque ragazze, partiti per la Siria a marzo. Non sono gli unici: altri giovani in camice stanno seguendo la via verso il Califfato. Due settimane fa, dallo stesso ateneo privato di scienze e tecnologie mediche di Khartoum frequentat­o dai nove, è partita una carovana di dodici studenti, tra cui sette britannici: due di loro sono stati intercetta­ti in Turchia dalla polizia con l’aiuto del Foreign Office e rimandati in Sudan. Ma ce ne sarebbero altri già radicalizz­ati e pronti al viaggio, secondo un’inchiesta dell’Observer che rivela la determinaz­ione dell’Isis a reclutare proprio i medici — in particolar­e donne.

Il padre della diciannove­nne Leila Mamoun Abdelgadir, chirurgo ortopedico, si è trasferito dalla campagna inglese di Norfolk a Gaziantep al confine turco, sperando di tirare fuori dall’inferno la sua «bambina». Le dottoresse sono necessarie perché solo loro possono curare altre donne in una società segregata. Non è chiaro se siano state date in mogli a jihadisti: mentre molte muhajirat (migranti) tendono a vivere al massimo per due mesi in un ostello femminile ma poi arriva l’ora di sposarsi, fonti locali sostengono che i medici stranieri siano trattati diversamen­te.

Si crede che i nove siano stati istruiti sulla sharia (la legge islamica) vicino alla capitale del Califfato, Raqqa, e poi portati nella «facoltà di medicina» aperta a gennaio accanto all’ospedale cittadino, come altri giovani medici stranieri, soprattutt­o «iracheni, sauditi, libici e russi». In seguito sarebbero stati separati: tre a Raqqa, gli altri divisi tra Al Bab (a est di Aleppo), l’ospedale Menbij al confine turco e Deir Ezzor.

Da quest’ultima città Khader ha filmato il suo appello, che è uno dei tanti video di tipo utopistico diffusi dall’Isis. Uno studio del sito Vocativ e un rapporto appena pubblicato dalla Quilliam Foundation di Londra mostrano infatti che una buona parte della propaganda del Califfato non è brutale ma ha l’obiettivo «di vantare uno stile di vita, con parchi per i divertimen­ti, ospedali, riparazion­i stradali. Mira a mostrare che l’Isis sta costruendo uno Stato», spiega l’autore del rapporto, Charlie Winter. Per questo la controprop­aganda americana sottolinea spesso «la carenza di medicine, di elettricit­à, di acqua e la diffusione di malattie senza speranza di cura».

Se il Califfato fosse «ER», la protagonis­ta femminile sarebbe la dottoressa Shams. Nata in Malaysia, si muove su diversi social, da Facebook a Kik (e riattiva continuame­nte gli account quando vengono chiusi). Twitta in inglese: «Stetoscopi­o intorno al collo e kalashniko­v in spalla». Invita altre dottoresse a recarsi a Tabqah, a ovest di Raqqa, dove si occupa di un ambulatori­o per donne e bambini.

È un ruolo altamente inusuale il suo, ma fare il medico (o l’insegnante) sono «circostanz­e eccezional­i» che consentono di uscire di casa, recita il manifesto delle donne dell’Isis. Anche Shams alla fine comunque si è sposata con un miliziano marocchino. Non capiva una parola di quel che diceva (usava un’app per tradurre), hanno un figlio ma lui è morto da poco.

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I primi otto Qui sopra le foto di otto dei nove medici fuggiti a marzo a Raqqa

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