L’arte sognante di Fausto Melotti l’ingegnere che amava la musica
Si aggirava fra le sale con l’aria stupita di un fanciullo, ancora incredulo che i suoi «giocattoli», leggeri e soavi, poetici e sognanti, avessero potuto interessare qualcuno, a tal punto da esporli in un una sede così prestigiosa. Estate del 1980. Con una grande mostra a Palazzo Reale, Milano rendeva omaggio ad uno dei suoi artisti più grandi: Fausto Melotti. Una sorta di «atto riparatore» per averlo trascurato sino ad allora. Da quel momento è stato sempre un crescendo. Grandi retrospettive in Italia e all’estero: dalle antologiche allo scandaglio di periodi particolari (quasi capitoli a sé), che servono ad allargare il puzzle creativo.
Come questo che a Villa Paloma, sede del nuovo Museo nazionale di Monaco, adesso analizza il rapporto fra l’artista e «Domus», la rivista fondata da Gio Ponti nel 1928. Un sodalizio ultraventennale, dal 1948 al 1968.
Con la giovane figlia Lisa, il celebre architetto raggiungeva spesso lo studio milanese di Melotti, al numero 9 di via Giacomo Leopardi, fornito anche di una fornace dove l’artista di Rovereto cuoceva le sue formelle. Discussioni, confronti, suggerimenti, prese d’atto. Che, poi, si traducevano in disegni, terrecotte, gessi, crete, lamine metalliche, saggi per la rivista.
Alla base di tutto, per Melotti c’era la musica («Come classica sonata, la vita termina con un tempo veloce»). Sul pentagramma nascevano e tramontavano i giorni, cambiavano le stagioni, fiorivano i peschi, si cominciava a vendemmiare, picchiettavano gocce d’acqua — «Sull’arpa corre una pioggia leggera. Ah, saper scrivere un preludio per cinque arpe e un tamburo» — che lo scultore era pronto a fermare in fili sottilissimi di metallo che, alla base, si allargavano a mo’ d’una pozzanghera in miniatura. «La scultura è salva nel contrappunto — annotava —. La pittura si giustifica più facilmente con l’arabesco diatonico e l’orchestrazione cromatica».
Melotti era nato a Rovereto. La città — era solito ricordare agli amici — aveva accolto il primo concerto di Mozart, aveva dato i natali a Riccardo Zandonai (allievo di Pietro Mascagni), che aveva musicato la Francesca da Rimini di D’Annunzio. Qui, aggiungeva con un sorriso angelico e soddisfatto, «è nato anche mio nipote Maurizio Pollini». Il pianista, per chi non lo sapesse.
Per il rapporto arte-musica, spesso Melotti è stato accostato a Paul Klee, ma si tratta solo di profumo. Così come quando lo si paragona ad Alexander Calder. Che cos’avevano in comune? A parte la laurea in Ingegneria, il vento che smuoveva le farfalle dell’uno e i «Mobiles» dell’altro.
C’è di più: nella mostra del Principato, a documentare taluni momenti importanti dell’artista provvedono le fotografie di Ugo Mulas. Eccolo posare fra La decorazione e La pittura, costeggiare La casa dell’orologiaio, incuriosirsi dinanzi ai Teatrini. E ancora: immergersi fra cerchi, rettangoli, linee parallele e altri elementi geometrici; fra lune e mezzelune, persino fra biglie a mo’ di note, adagiate o sospese come se l’aria le facesse palpitare. In fondo, a Fausto Melotti la laurea in Ingegneria elettronica era servita solo per manipolare fili elettrici e metalli sottili, per creare figure quasi accennate ed inserirle in un teatrino immaginifico, magico quasi.
Anche l’Accademia (allievo di Adolfo Wildt, nel ’28, si era diplomato a Brera) non aveva lasciato grandi tracce sulla sua opera. Se influssi aveva subìto, bisognava guardare altrove. Al suo sodalizio con Lucio Fontana, per esempio, con il quale aveva condiviso uno studio. Per il resto non si può dire che, all’infuori di una cerchia di estimatori, Melotti sia stato mai un artista popolare. Da giovane aveva cavalcato l’avanguardia, l’astrattismo. I suoi amici più stretti erano stati letterati e musicisti. Carattere schivo e fors’anche elitario, avrebbe potuto benissimo far sua l’esortazione di Gustave Flaubert: «Vivi da borghese ma pensa come un dio».
La rassegna di Monaco, curata da Eva Fabbris e Cristiano Raimondi (aperta lo scorso 9 luglio, si protrae sino al 17 gennaio prossimo) presenta novanta lavori fra sculture e ceramiche smaltate. «La ceramica ha sempre una sua povertà primaverile — osservava Melotti —. È l’arte povera e l’arte dei poveri che si veste a festa. È una dolce rappresaglia popolare».
Ma anche qui, egli era riuscito a plasmare una realtà che, da poeta, traduceva in immagini liriche, sognanti. Si leggano i versi pubblicati da Vanni Scheiwiller in quei libriccini che per qualche decennio hanno fatto la felicità dei letterati.