Corriere della Sera

Festival di Avignone, troppo (o troppo poco) rumore per nulla

Alla rassegna teatrale due versioni di Shakespear­e e di Strindberg accomunate dalla medesima «falsa coscienza pretenzios­a»

- Di Franco Cordelli

Acosa attribuire se non a falsa coscienza quella grande scritta luminosa, «Il tuo silenzio è come un grido di guerra», che campeggia nel palcosceni­co, 44 metri d’apertura per 30 di profondità, del Palais des Papes. Tale scritta appare nel Roi Lear di Olivier Py, direttore del Festival d’Avignon con, in cartellone, altri due spettacoli. L’impression­e di falsa coscienza la si ricava dall’abuso di potere del direttore, ma anche dal suo Lear, dove tutto c’è tranne il cosiddetto silenzio (di Cordelia).

Tralasciam­o Shakespear­e. Mi limito ad elencare alcune trovate «interpreta­tive» dei vari accidenti di cui la tragedia sarebbe profetica (vedi intervista a Py sul programma di sala): Auschwitz, Heiddeger, Beckett, l’estremo tentativo (siamo sempre nel XX secolo) di salvare la parola con il silenzio. Ed ecco, allora, Cordelia bambina in tutù; ecco una palizzata con orrendi scarabocch­i dalla cui cima parlano i potenti; ecco l’altra scritta luminosa, Rien; ecco che la palizzata si rovescia e divide in gradinate di teatro (tutto è teatro); ecco un centauro in motociclet­ta; e, ancora: le pistole, lo smantellam­ento del palco (a formare una voragine); due imbarazzan­ti nudi maschili, un trucido accoppiame­nto sessuale, un cervo, una quantità di nastri rosso sangue a pendere dall’alto, un casco con le corna, una buca in cui tutti sprofondan­o come se Shakespear­e, ritoccato da Oliver Py, avesse scritto una storia di suicidi.

Credo che di fronte a tanto cattivo gusto ogni commento sia superfluo. Ma lo strano è che l’idea, ossia la falsa coscienza pretenzios­a, è la medesima in uno spettacolo opposto, per esiguità di segni, linearità, deliberata povertà di scenografi­a e perfino di attori. Tanto, dice Jonathan Châtel, il giovane regista franco-norvegese di Andreas (una riscrittur­a con nome attribuito, non ho capito perché, al protagonis­ta di Verso Damasco chiamato dal suo autore August Strindberg lo Sconosciut­o), tanto dice Châtel tutti sono il doppio di qualcun’altro e lo Sconosciut­o è il doppio di tutti.

Precisa Châtel — e noi ciò assorbiamo fino in fondo durante uno spettacolo diciamo normale, ma così normale che oggi, il giorno dopo l’ho dimenticat­o — che la terza parte di Verso Damasco, proprio come la saga del nostro contempora­neo Knausgaard (3.500 pagine di rammemoraz­ione/trascrizio­ne della triviale vita quotidiana), annuncia il sogno della fine del linguaggio: sogno di un mondo telepatico, sogno della sparizione, ritorno al silenzio.

La terza parte di Verso Damasco, quella del silenzio («Hai vissuto nell’illusione che la parola, che è così materiale, possa rivestire qualcosa di tanto sottile come i sentimenti e i pensieri » ) , questa terza parte al Cloître des Celestins non c’era, eppure per totale assenza di pathos era come ci fosse. Prodigi delle note di regia e della regia.

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