Festival di Avignone, troppo (o troppo poco) rumore per nulla
Alla rassegna teatrale due versioni di Shakespeare e di Strindberg accomunate dalla medesima «falsa coscienza pretenziosa»
Acosa attribuire se non a falsa coscienza quella grande scritta luminosa, «Il tuo silenzio è come un grido di guerra», che campeggia nel palcoscenico, 44 metri d’apertura per 30 di profondità, del Palais des Papes. Tale scritta appare nel Roi Lear di Olivier Py, direttore del Festival d’Avignon con, in cartellone, altri due spettacoli. L’impressione di falsa coscienza la si ricava dall’abuso di potere del direttore, ma anche dal suo Lear, dove tutto c’è tranne il cosiddetto silenzio (di Cordelia).
Tralasciamo Shakespeare. Mi limito ad elencare alcune trovate «interpretative» dei vari accidenti di cui la tragedia sarebbe profetica (vedi intervista a Py sul programma di sala): Auschwitz, Heiddeger, Beckett, l’estremo tentativo (siamo sempre nel XX secolo) di salvare la parola con il silenzio. Ed ecco, allora, Cordelia bambina in tutù; ecco una palizzata con orrendi scarabocchi dalla cui cima parlano i potenti; ecco l’altra scritta luminosa, Rien; ecco che la palizzata si rovescia e divide in gradinate di teatro (tutto è teatro); ecco un centauro in motocicletta; e, ancora: le pistole, lo smantellamento del palco (a formare una voragine); due imbarazzanti nudi maschili, un trucido accoppiamento sessuale, un cervo, una quantità di nastri rosso sangue a pendere dall’alto, un casco con le corna, una buca in cui tutti sprofondano come se Shakespeare, ritoccato da Oliver Py, avesse scritto una storia di suicidi.
Credo che di fronte a tanto cattivo gusto ogni commento sia superfluo. Ma lo strano è che l’idea, ossia la falsa coscienza pretenziosa, è la medesima in uno spettacolo opposto, per esiguità di segni, linearità, deliberata povertà di scenografia e perfino di attori. Tanto, dice Jonathan Châtel, il giovane regista franco-norvegese di Andreas (una riscrittura con nome attribuito, non ho capito perché, al protagonista di Verso Damasco chiamato dal suo autore August Strindberg lo Sconosciuto), tanto dice Châtel tutti sono il doppio di qualcun’altro e lo Sconosciuto è il doppio di tutti.
Precisa Châtel — e noi ciò assorbiamo fino in fondo durante uno spettacolo diciamo normale, ma così normale che oggi, il giorno dopo l’ho dimenticato — che la terza parte di Verso Damasco, proprio come la saga del nostro contemporaneo Knausgaard (3.500 pagine di rammemorazione/trascrizione della triviale vita quotidiana), annuncia il sogno della fine del linguaggio: sogno di un mondo telepatico, sogno della sparizione, ritorno al silenzio.
La terza parte di Verso Damasco, quella del silenzio («Hai vissuto nell’illusione che la parola, che è così materiale, possa rivestire qualcosa di tanto sottile come i sentimenti e i pensieri » ) , questa terza parte al Cloître des Celestins non c’era, eppure per totale assenza di pathos era come ci fosse. Prodigi delle note di regia e della regia.