Scandalo all’opera
La violenza su Gilda in «Rigoletto» e uno stupro nel «Guglielmo Tell»: a teatro è di moda la provocazione
La rilettura dei classici che fa discutere
Al Luna Park del Duca di Mantova l’attrazione somma è lui, Rigoletto. Buffone deforme, la sua testa da clown sovrasterà la porta d’ingresso del parco giochi del Duca e la sua corte. Un faccione grottesco, 7 metri di altezza, incastrato nel muro dello Sferisterio di Macerata, manifesto di una parabola morale sull’immoralità, specchio di quel mondo cinico e spietato messo sotto accusa da Giuseppe Verdi. Titolo scelto da Francesco Micheli, direttore del Macerata Opera Festival, per aprire il 17 luglio la 51esima stagione intitolata «Nutrire l’anima», nel cui cartellone compaiono anche il dittico Pagliacci di Leoncavallo e Cavalleria di Mascagni, e La Bohème di Puccini.
Diretto da Francesco Lanzillotta, Rigoletto sarà rivisitato da Federico Grazzini, regista giovane e audace. Deciso non solo a traslocare la corte di Mantova dentro un Luna Park, ma a far cantare al Duca «La donna è mobile» in una stradaccia di periferia, appoggiato a una bancarella di panini, circondato da un gruppo di prostitute transessuali. E la mobilità femminile acquisterà tutt’altro significato…
«Chi potrebbe essere oggi un signorotto di quella specie? — si chiede Grazzini —. I tratti sono quelli di un malavitoso uso alle faide, ai soprusi, alla violenza. Sempre con la certezza di uscirne impunito. Il suo palazzo somiglia a quello di certi mafiosi o camorristi».
Da lontano, con tutte quelle luci, potrebbe sembrare il luogo della spensieratezza e del divertimento, da vicino si rivela un triste verminaio. «Lo stesso Rigoletto ne è contaminato, ne ha così paura da nascondere il suo bene più prezioso, la figlia Gilda. Tenta di tener separati quei due mondi, pubblico e privato, ma la doppia morale non funziona. Alla fine si ritroverà involontario carnefice della figlia e di se stesso».
Motore primo della tragedia è la maledizione che Monterone, a cui il Duca ha sedotto la figlia, lancia sull’ammiccante Rigoletto. Nonostante il libretto non lo preveda, il regista la farà comparire in scena, presagio e «doppio» di Gilda, violentata a turno dentro un gabbiotto dal branco dei cortigiani. Libertà interpretative originali, stimolanti. Che forse solleveranno discussioni.
Ma se la violenza evocata da Grazzini non è mai esibita e in più è supportata dalla storia, non altrettanto si può dire di quella sbattuta in faccia al pubblico del Covent Garden la scorsa settimana da Damiano Michieletto. Che senza neanche avvisare Rossini, ha aggiunto al Guglielmo Tell una scena di stupro crudamente esplicita e inesistente nell’originale. Tanto che la direzione del teatro, davanti all’insurrezione della platea, ha dovuto presentare scuse ufficiali e far stampare sui biglietti delle repliche l’avviso che la scena non era prevista dall’autore.
Di questi giorni è anche lo scandalo scatenato a Aix-en-Provence dall’austriaco Martin Kusej, che ha introdotto nel Ratto dal serraglio di Mozart una banda di jihadisti tagliatori di teste. Anche lì spettatori furibondi, anche lì intervento del direttore del festival Bernard Foccroulle a spiegare che la scelta era in tema con i recenti eventi di cronaca.
Certo di riletture ardite è piena la storia dell’opera. Dalla scandalosa Traviata di Visconti in poi, sono il cardine del mestiere del regista. Ma lo scalpore dovrebbe essere il «sale» e non il fine di una messa in scena. Negli ultimi anni invece si è assistito a un’escalation di stravolgimenti e forzature sempre meno comprensibili, estranei al libretto e alla partitura. Risultato, il pubblico esce con la sensazione di non aver visto lo spettacolo per cui aveva comperato il biglietto.
Di sicuro hanno pensato di aver sbagliato teatro quelli che all’Opera di Dusseldorf videro un paio d’anni fa un Tannhäuser ambientato da Burkhard Kosminski in epoca nazista, con i pellegrini avviati nudi alle camere a gas e Venere trasformata in ufficiale delle SS. Di sicuro sono rimasti esterrefatti quelli che l’anno scorso a Londra si sono trovati davanti a un pescecane morto nell’Idomeneo di Mozart ideato dal caparbio Kusaj.
E così, chi non sa la storia non si raccapezza, chi la sa si indigna. Una tendenza estrema, scriteriata, che dalle sale tedesche, dove è in voga da decenni, è dilagata in quasi tutti i teatri. Sempre con rari consensi e molte polemiche. E una domanda senza risposta: perché insistere su una formula che scontenta tutti, spettatori e critica? E non allarga neanche le platee della lirica.