Corriere della Sera

Viaggio nel futebòl L’altra faccia del calcio brasiliano

- Domenico Calcagno

Dadà Maravillia non pretende di saper giocare a calcio, anzi, ma racconta di aver segnato 499 gol, tutti di testa, più qualcuno di rimbalzo, per puro caso. Joguaré Berezza de Vasconcelo­s invece non potrebbe giocare perché ha una gamba sola, eppure lo fa, e la gente si mette in fila per vederlo. Sono solo due delle tante storie che Enzo Palladini, giornalist­a Mediaset con un passato al Corriere dello Sport, racconta nel suo libro «Scusa se lo chiamo futebòl» (edizioni InContropi­ede, 16,50 €, nella foto la copertina). Non è un libro sul calcio brasiliano che tutti conoscono, di Pelé e di Garrincha si parla solo di sfuggita, è un viaggio nella parte sconosciut­a del futebòl (pronuncia: fucibòl), dentro la passione sfrenata e spesso disperata di un paese che ama il calcio più di quanto ami se stesso. Ci sono le taça das favelas, il più grande torneo per dilettanti che si gioca a Manaus, in Amazzonia: 30 mila giocatori, 3 mila partite. Ogni squadra ha una madrina perché a Manaus ci sarebbero le donne più belle del mondo e le madrine partecipan­o a un torneo di bellezza parallelo a quello di calcio. E se la tua miss è particolar­mente bella, può capitarti di andare avanti nonostante una sconfitta. Sono storie di gol, campioni improbabil­i, campi polverosi e lupi mannari. E di finti calciatori come Carlos Enrique Raposo, detto Kaiser, l’amico di tanti giocatori che gli procurano un ingaggio. Kaiser partecipa ai ritiri, poi comincia a infortunar­si fino a sparire nel nulla quando si comincia a giocare per rispuntare in un altro stato, in un’altra squadra. Sono storie di futebòl, qualcosa di diverso, spesso qualcosa di più del calcio.

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