Come cambiano i nuovi equilibri Opec
Il Paese può produrre 3,6 milioni di barili. I rapporti con l’Arabia Saudita
Che cosa accadrà con il ritorno dell’Iran a pieno titolo sulla scena petrolifera? Non tutti gli effetti sono prevedibili e qualcuno potrebbe non essere del tutto positivo, anche se la prima conseguenza sarà quella di accentuare la pressione al ribasso sui prezzi del barile, apprezzata in particolare dai Paesi consumatori e dall’Occidente. La prima incertezza riguarda i tempi, e la capacità della Repubblica islamica di ritornare ai livelli di produzione pre-sanzioni (circa 4 milioni di barili al giorno).
L’abbandono di queste ultime (e in particolare di quelle finanziarie) potrebbe essere una procedura complicata, destinata a non esaurirsi presto visto l’intrecciarsi di legislazione federale e statale Usa, e di quella europea. Dal 2011, poi, i campi petroliferi iraniani non hanno più potuto contare sull’assistenza tecnologica delle grandi compagnie petrolifere, e riprendere a pieno ritmo potrebbe essere più difficile del previsto. La stima, comunque, è che Teheran possa far sentire il suo peso effettivo dall’ultimo trimestre dell’anno, e che nel 2016 possa riportare la sua produzione di petrolio intorno a 3,6 milioni di barili al giorno dai 2,8 milioni attuali (senza tenere conto dei condensati e di altri liquidi). Non moltissimo, ma anche se i livelli dei tempi dello Scià resteranno a lungo inavvicinabili (6 milioni di barili al giorno), comunque sufficienti per innescare una guerra di prezzi e quote con i concorrenti dell’Opec.
L’Iran, insomma, cercherà di riprendersi le quote di mercato che in questi ultimi anni le sono state sottratte dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati del Golfo, persino dalla Russia, che l’hanno sostituito nei rapporti commerciali con Cina, India, Giappone e Corea del Sud. Le storiche tensioni con Riyadh, rivale politico regionale e all’interno del cartello dei produttori, sono quindi destinate ad acuirsi, anche se nell’immediato il principale obiettivo della leadership iraniana sarà quello di rimpinguare le casse dello Stato: i proventi da petrolio e gas erano di 118 miliardi di dollari nel 2011 e nel 2014 erano crollati a 56 miliardi. Paradossalmente, però, in uno scenario di prezzi bassi Arabia Saudita e Iran potrebbero anche trovare una convergenza di interessi: mettere ulteriormente nei guai i produttori di petrolio e gas «non convenzionale» ( shale) degli Stati Uniti, che sebbene si stiano mostrando un osso duro anche a 60 dollari al barile potrebbero soffrire e uscire dal mercato. Va da sé che per riuscire in queste operazioni la Repubblica islamica dovrà assicurarsi l’appoggio delle grandi compagnie occidentali, e soprattutto della loro tecnologia. In molte si sono fatte ricevere dal ministro del petrolio Bijan Namdar Zanganeh negli ultimi tempi: Shell, Eni, Total ad esempio. Ma per potersi assicurare la loro opera sarà però necessario cambiare i termini contrattuali «nazionalistici» che impediscono a stranieri di essere proprietari di risorse del sottosuolo iraniano. La discussione è in corso, si vedrà. Un altro interessante aspetto del rientro a tutto tondo dell’Iran nella partita petrolifera è quello del gas. Tehran, numero quattro al mondo per riserve di greggio è anche il numero due per riserve di gas naturale, dopo la Russia e prima di Qatar e Stati Uniti. Una ricchezza assai poco sviluppata, che potrebbe far gola all’Europa che da tempo si è appassionata al progetto di un «corridoio sud» da cui far transitare gas alternativo a quello russo. Poterlo nutrire con gas iraniano sarebbe perfetto. Ma Tehran, non va scordato, fa pur sempre parte con Mosca e altri nove Paesi del «Gas exporting countries forum», la tanto temuta e mai realmente operante «Opec del gas » . Insomma, si aprono molti scenari e le sorprese potrebbero non mancare.
@stefanoagnoli