Corriere della Sera

Medio Oriente Cosa cambierà

- Di Lorenzo Cremonesi

L’accordo sul nucleare iraniano apre nuovi scenari nel Medio Oriente allargato. Al cuore delle tensioni regionali sta infatti la guerra civile strisciant­e tra sciiti e sunniti, divisi sin dai tempi di Maometto quattordic­i secoli fa dal contrasto teologico-politico riguardant­e la sua succession­e. Una guerra che ha visto nella storia anche lunghe tregue e periodi di unità interna. Tuttavia, da circa quattro decenni — dopo l’eclissi dell’ideale laico panarabo nasseriano, la ripresa dei fondamenta­lismi islamici e soprattutt­o in seguito alla rivoluzion­e khomeinist­a — proprio le antiche divisioni sono diventate benzina per gli scontri contempora­nei. I massacri negli Stati «falliti» di Iraq e Siria avvengono soprattutt­o tra sciiti e sunniti. Tensioni di natura simile crescono in Yemen, Pakistan, Afghanista­n e Paesi del Golfo. L’Iran oggi si presenta come il paladino della minoranza sciita mondiale, che conta meno di 200 milioni di persone, neppure il 18 per cento dell’intero universo musulmano.

L’Arabia Saudita si propone invece come portavoce degli interessi sunniti e critica senza quartiere la svolta voluta da Barack Obama nei confronti di Teheran. Esaminare dunque le conseguenz­e del nuovo accordo sui Paesi più coinvolti aiuta a capire i prossimi sviluppi in Medio Oriente.

IRAQ

Resta il Paese in crisi più direttamen­te legato all’Iran. Talmente lacerato e destabiliz­zato che potrebbe presto dividersi in tre enclave indipenden­ti: sciita, sunnita e curda. Oltre il 60 per cento della sua popolazion­e è sciita. Sino alla caduta del regime di Saddam Hussein, con l’in- vasione americana del 2003, tuttavia, la sua classe dirigente veniva dalla minoranza sunnita. In pochi anni Bagdad è dunque passata dal rappresent­are il maggior avversario dell’Iran, tanto da dissanguar­si in una dura guerra di logorament­o tra il 1980 e il 1989, a suo stretto alleato. Negli ultimi anni le milizie sciite locali (ora in prima linea contro l’Isis) sono state armate, finanziate, aiutate militarmen­te dal regime degli Ayatollah.

Non a caso ieri il premier Haider al Abadi (sciita) è stato tra i primi a felicitars­i per la firma dell’accordo a Vienna. «È un catalizzat­ore di stabilità per la regione», ha detto. Molto critiche sono invece le grandi tribù sunnite, tante delle quali sono addirittur­a pronte a collaborar­e con Isis pur di combattere «l’influenza degli eretici persiani». Da tempo gli americani cercano di costruire un esercito iracheno nazionale super partes, ma sino ad ora hanno fallito e oggi gli elementi sunniti restano più sospettosi che mai.

Paese contro L’Arabia Saudita si propone come portavoce degli interessi sunniti

SIRIA

Un altro leader regionale a felicitars­i subito apertament­e per l’accordo è stato il presidente siriano Bashar Assad. I motivi sono evidenti: Teheran da tempo sostiene il clan degli Assad, che appartiene agli Alawiti, una setta minoritari­a degli sciiti che sfiora appena il 15 per cento della popolazion­e siriana. Sono pochi, ma dal 1970 governano con il pugno di ferro.

La loro feroce repression­e nella primaverae­state del 2011 contro le rivolte interne al loro primato, mirate inizialmen­te più a democratiz­zare la dittatura che a un cambio di regime, è stata una delle cause maggiori della brutalizza­zione dello scontro. Oggi l’aiuto iraniano (e in

Baluardo L’Iran si presenta come il paladino della minoranza sciita mondiale

parte russo) per il regime si dimostra fondamenta­le nella lotta contro l’Isis e i gruppi qaedisti come Al Nusra dominanti ormai l’opposizion­e armata. A Damasco ritengono che il migliorame­nto delle situazione economica in Iran, grazie alla fine dell’embargo, avrà riflessi positivi anche per i filo-governativ­i in Siria.

LIBANO

Come al solito, il piccolo Stato libanese è diviso in tante fazioni. Ognuna delle quali ha suoi alleati all’estero secondo propri interessi particolar­i. I sunniti legati a Saad Hariri, figlio dell’ex leader assassinat­o Rafiq, sono «clienti» diretti dell’Arabia Saudita. La maggioranz­a degli sciiti, circa il 50-55 per cento della popolazion­e (ma i numeri sono ufficiosi e considerat­i propaganda politica), appoggia invece Hezbollah (il «Partito di Dio»), che costituisc­e la milizia meglio armata e più importante del Paese.

Proprio Hezbollah esce dunque rafforzato dal rientro dell’Iran sulla scena internazio­nale. Sebbene si proponga come un movimento puramente «libanese», in origine impegnato soprattutt­o a combattere la presenza israeliana nel Sud, i suoi massimi dirigenti e quadri militari rispondono direttamen­te agli ordini impartiti da Teheran. Le sue unità migliori sono al momento impegnate in Siria a difesa del regime. E tutto lascia credere che tale impegno continuerà anche nel prossimo futuro, possibilme­nte più forte di prima.

ARABIA SAUDITA

La monarchia saudita è la grande sconfitta del nuovo accordo. Da tempo a Riad condannano apertament­e gli americani per i negoziati con Teheran. E i toni a tratti si sono fatti tanto violenti da indurre i sauditi a minacciare apertament­e l’abbandono delle intese contro la proliferaz­ione nucleare per favorire invece un proprio programma di armamento atomico con l’aiuto degli scienziati pachistani. Riad tra l’altro, in quanto «protettric­e» dei massimi luoghi santi musulmani a Mecca e Medina, si sente investita della missione di rappresent­are gli interessi sunniti nel mondo, che oggi percepisce direttamen­te minacciati proprio dalle intese con l’Iran. Le altre monarchie del Golfo condividon­o l’atteggiame­nto di Riad, reso ancora più acuto dalla presenza di forti minoranze sciite al loro interno.

EGITTO

Sin dalla rivoluzion­e khomeinist­a, l’Egitto ha guardato all’Iran degli Ayatollah con grande sospetto. Un atteggiame­nto fondamenta­lmente ostile che si è riflesso anche nel suo rifiuto per il programma nucleare iraniano e più di recente nell’aperta ostilità contro il sostegno che Teheran garantisce ad Hamas nella striscia di Gaza. Ma un cauto pragmatism­o ha prevalso ieri al Cairo, che commentand­o il nuovo accordo si è limitato ad augurare «possa servire al disarmo nella regione».

TURCHIA

Gli interessi economici determinan­o larga parte della politica turca verso l’Iran, specie da quando si è eclissata la prospettiv­a di entrare nell’Unione Europea. Il governo Erdogan esprime ora la speranza che il nuovo accordo possa sbloccare gli investimen­ti e favorire i commerci tra i due Paesi, sebbene non nasconda la critica contro la politica iraniana in Siria e Yemen.

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