Corriere della Sera

«In quella cella in Guinea pensavo di morire»

Il ritorno in Italia di Berardi, l’imprendito­re imprigiona­to per due anni: ma non ho mai perso la mia dignità

- Paolo Sarandrea

«Mi sento vivo, ecco. E provo una gioia infinita. Perché ho sempre pensato che non sarei sopravviss­uto a quel carcere». Roberto Berardi si accomoda su una sedia in terrazzo, attorniato dalla famiglia. L’appartamen­to al primo piano di una palazzina signorile di via del Lido, a Latina, è invaso da amici. È la casa della mamma. Da qualche ora l’imprendito­re 50enne è rientrato in Italia, via Madrid, dalla Guinea Equatorial­e, dove ha scontato ingiustame­nte una condanna a due anni e mezzo di reclusione.

Prima tappa nell’area riservata della polizia giudiziari­a, al terminal 1 di Fiumicino, in vista dei chiariment­i che fornirà ai magistrati nei prossimi giorni sulle violenze subite. Poi l’incontro con la stampa, infine la corsa verso casa. La mamma gli serve un caffè, lui chiede una sigaretta e abbraccia il più piccolo dei suoi tre figli.

Ha perso trenta chili nelle prigioni di Bata. Gli chiedono del momento più duro ma rispondere è impossibil­e, dice, sono stati mesi terribili. Ha subìto violenze psicologic­he, torture, privazioni. «Ho affrontato ogni sevizia con tutta la dignità che avevo, senza paura».

La sua storia in Guinea Equatorial­e ebbe inizio quando il figlio del presidente-dittatore Teodoro Obiang lo invitò a diventare socio in affari della sua impresa edile. Berardi aveva già realizzato strade, dighe, ponti in diversi Paesi africani e per questo accettò con entusiasmo. Ma poi impiegò poco tempo a capire che quella società sarebbe servita a coprire vizi e corruzione del rampollo Teodorin. E così, quando l’imprendito­re italiano si è lamentato per gli ammanchi nelle casse della società, gli Obiang hanno ribaltato la storia e Berardi è finito in carcere con l’accusa di appropriaz­ione indebita.

È iniziato un calvario lunghissim­o, in uno dei Paesi più corrotti del mondo, fatto di soprusi e processi farsa, di annunci di liberazion­e puntualmen­te disattesi, in cui ha avuto un ruolo fondamenta­le anche una donna senza volto. «Si chiama Esperanza, ma è un nome in codice. A Bata ha fatto di tutto per me, con coraggio e una volontà di ferro, rischiando tantissimo tutte le volte che veniva in carcere a darmi il suo aiuto. Le devo molto, e per questo adesso resterà qui con la mia famiglia».

Il momento più bello? «Mi hanno liberato all’improvviso, di notte, e la cosa all’inizio mi ha fatto preoccupar­e. Ma ho capito che era veramente finita quando uscendo ho visto le television­i e il console italiano, Massimo Spano, che mi veniva incontro».

Berardi alterna i ricordi dolorosi a una promessa solenne. «Spero che Dio mi regali altrettant­a forza per una battaglia da fare tutti insieme, per cambiare il quadro legale di riferiment­o in caso di crisi come questa. Con la Guinea Equatorial­e non ci sono accordi bilaterali, la Farnesina è stata costretta ad accettare situazioni assurde di illegalità». E dovrà farlo per chissà quanto tempo ancora.

A Bata oggi sono ancora reclusi tre italiani, altri due sono invece agli arresti domiciliar­i. «E tutti con accuse infondate a loro carico. Ecco perché dico che si tratta di un’emergenza per il nostro Paese».

Qualcuno gli chiede se ripartirà, se tornerà in Africa e lui non esita. «Certamente sì, forse in Camerun, ma lo vedremo più avanti». In fondo a storie brutte come questa, qualcosa lo perdi sempre per strada. « A Bata ho lasciato un amore infinito per la gente, per tanti ragazzi detenuti che hanno fatto tantissimo per me senza ricevere in cambio nulla. Lì dentro stanno pagando con la loro vita il prezzo della libertà».

Il rampollo Il figlio del presidente gli ha offerto di diventare suo socio, poi lo ha accusato

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