SERVE UNA PATENTE A PUNTI PER PREMIARE L’INNOVAZIONE
Fondi per la ricerca: mai più «a pioggia», si ripete da anni. Illusioni perdute? Forse no: un raggio di sole ispira il nuovo Piano nazionale ricerca, Pnr. Gli stanziamenti (5,8 miliardi entro il 2016, 20 miliardi entro il 2020) dovrebbero concentrarsi quanto possibile su pochi grandi interventi, in 12 aree tecnologiche ed economiche precisamente individuate (e da rivedere ciclicamente: sembra ovvio). E nell’allocazione, il programma privilegia la cooperazione fra imprese e fra queste ed enti di ricerca.
Guai se la imminente discussione nel Cipe aprisse deroghe significative — cavalli di Troia di politiche clientelari troppo note — in questa sana impostazione generale. Occorre anzi che essa venga garantita rispetto ad una attuazione rigorosa. A tal fine, i finanziamenti potrebbero essere assegnati secondo un sistema di «patente a punti» — a progressione inversa rispetto a quella automobilistica. Li si dovrebbe cioè proporzionare a due parametri principali. Anzitutto, al grado di cooperazione fra imprese e fra queste e mondo della ricerca scientifica, anche a livello internazionale. E poi, per i progetti tecnologici, al grado di effettiva innovatività, attestato da referee autorevoli e/o dall’ottenimento di brevetti a serio esame preventivo. Più alti quei gradi, più «punti» di finanziamento.
L’adozione di questo criterio (da articolare con saggia ponderazione, sì, ma non per eluderne la ratio!) prenderebbe, con la fava dei finanziamenti alla ricerca, due piccioni preziosi. Il primo, la maggiore aggregazione del tessuto produttivo: obbiettivo storico, rispetto al quale si è già fatto non poco (distretti, filiere..) ma non abbastanza. Il secondo, la più intensa selettività delle politiche dell’innovazione: postulato irrinunciabile della capacità della nostra economia di emergere nella concorrenza internazionale.