Colore e bronzo, gatti e diavoletti La narrazione «scenica» di Maraniello
Preceduto da Lea Vergine e Danilo Eccher che lo tirano a forza — da un lato e dall’altro —, nel 1971 il ventiseienne napoletano Giuseppe Maraniello piomba a Milano, dopo due anni d’insegnamento al liceo artistico di Benevento. Lo segue un codazzo di funamboli, acrobati, diavoletti, gatti sornioni e pigri travestiti da anfore e faretre. Da buon partenopeo, Maraniello ha in sé quell’innata simpatia che, a Brera, conquista subito il buon Luciano Inga Pin (1927-2009) — amico di Malaparte e De Pisis, titolare di una galleria d’avanguardia situata in un appartamento del terzo piano di via Pontaccio 12 —, sempre alla ricerca di giovani talenti.
E che Giuseppe abbia talento se ne accorgono ben presto Giorgio Cortenova, Achille Bonito Oliva, Renato Barilli, Guido Ballo, Gillo Dorfles e altri, tant’è che, qualche anno dopo, da Venezia gli offrono una sala personale alla Biennale. Dopo di che, cattedra all’Accademia di Brera e strada in discesa.
Questa nota sintetica della vita dell’artista è paragonabile ai racconti da lui scritti col colore e col bronzo. Sì, perché Maraniello è un narratore sui generis. Gli piace fare il salto con l’asta; lascia che il diavolo verde scappi dal quadro rettangolare; gioca con i titoli (cambiando posto alle consonanti, Doni diventa Nodi); allunga su una parete di nove metri Il flauto magico (ricordando Valery «che intravvedeva musica di pietra in un tempo greco», Gillo Dorfles parlerà di «un’esperienza di nuovo genere: una musica che diventa bronzo»); cosparge i suoi quadri-oro di semisfere, gocce, centauri, eroi estratti a sorte dai classici greci e latini.
Narrare, s’è detto. Ma forse sarebbe meglio suggerire, indirizzare, proporre con un linguaggio «misto» di pittura e scultura, quasi senza accorgersi dove finisce l’una e comincia l’altra. Connubio realizzato così bene, da apparire naturale.
Qualche mese addietro, Maraniello ha esposto alla Fondazione Marconi di Milano un’antologica degli ultimi trent’anni, presentata in catalogo da Tommaso Trini, che, in un lungo saggio scandito in quattro capitoli fittissimi, ha dato il meglio di sé: in italiano e in inglese.
Domani, invece, a Sarzana (La Spezia), alla Galleria Cardelli e Fontana sino al 2 settembre, apre una rassegna di lavori dell’ultimo lustro, con una introduzione di Francesco Tedeschi, docente alla Cattolica di Milano. In mostra una serie di Ponti (2015), In-Es (2014: «In» come inspirazione ed «Es» come espirazione) e Gambi dei fiori (2010).
«L’arte si nutre di pretesti», ha detto una volta Maraniello. In realtà, cambiato lo sfondo, le sculture continuano il loro volo. Con una differenza: adesso i personaggi confabulano sui ponti, nuovi formidabili quinte teatrali. La qual cosa avviene anche quando Maraniello corre sui binari dell’immaginario e della fantasia e attinge al Manuale di zoologia di Jorge Luis Borges, scrittore che egli chiama il «Mosè dell’immaginazione», dal quale prende in prestito l’anfesibena, serpente con due teste (una per ogni estremità), che si muove in direzioni opposte. Animale mitologico citato anche da Marco Anneo Lucano, Plinio il Vecchio e Dante.
Con la trasposizione in scultura, Maraniello crea una ben calibrata sintonia. Spiega: «L’artista assorbe la realtà che lo circonda attraverso i sensi e la riversa fuori di sé, metabolizzata, nell’opera». Movimenti contrapposti: s’era già detto. D’altronde è proprio sulla contrapposizione che l’artista si muove.
Come buona parte dei suoi colleghi napoletani, Maraniello possiede un bagaglio culturale «classico», in cui mitologia e storia (cui ha aggiunto la fiaba moderna) stanno al primo posto. E che, nel suo caso particolare, lo porteranno — con estro e fantasia — a diventare scultore-pittore-scenografo.
Che cosa vuol dire? Che nello stesso tempo in cui dipinge e scolpisce, Maraniello ha bisogno di porre il lavoro sulla scena, facendolo colloquiare con lo spazio intorno. Non importa se sia una galleria d’arte o una piazza, il salone d’un palazzo o il giardino d’una tenuta di campagna. Donne, gatti, diavoletti hanno bisogno di parlare, anzi di sostituirsi a lui che, notoriamente, non è un gran chiacchierone, nonostante la sua grande vitalità. Quest’ultima, «astratta — conclude Francesco Tedeschi — gioca la sua libertà di invenzione nell’associazione fra un’idea di spazio continuo e una configurazione che, per un attimo, prende consistenza per poi ritrarsi nelle pieghe del vuoto».
Allerta! Cercate di rintracciare il povero Maraniello, perso fra le pieghe.
Tecnica «mista» Un artista dai tanti linguaggi che cosparge i suoi quadri di gocce, centauri, eroi classici