LA MEMORIA HA BISOGNO DELLA STORIA
La memoria va di moda, moltiplica i suoi giorni, regola i conti con il passato. La memoria fa le leggi, anche se quella sulla Shoah dimentica la parola fascismo. La memoria ricorda la tragedia degli infoibati: e guai se non si accontentano. La memoria ricorda i caduti del terrorismo, gli uccisi, le bombe e le stragi: con date che non sono come le feste nazionali, che mettono il 25 aprile, il 2 giugno e il 4 novembre al riparo da tentazioni ripugnanti, ma quasi. I grandi anniversari — di cui furono garanti Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato e ora Franco Marini — solennizzano i passaggi tondi: 150° dell’Unità d’Italia, 100° della Grande guerra, 70° della Resistenza-Liberazione-Costituzione in un tutt’uno.
La memoria, però, ha una fragilità. Nel momento in cui alla generazione del pathos dovrebbe succedere la generazione dell’ethos, essa avrebbe bisogno che la storia, con il grigio distanziamento delle cose e la pignoleria critica di chi sta chino sulle fonti, le desse nerbo. Ma la nostra cultura ha espulso la storia dalla formazione delle classi dirigenti (se no qualcuno ricorderebbe Heinrich Brüning alla leadership tedesca di oggi...). La storia accademica si appaga nel deprecare narcisisticamente i tempora ei mores e le lotte discontinue e l’onore reso al superego dell’intellettuale (pofferbacco!). Nuovi strumenti tecnologici sono ancora allo studio, spesso di chi spera di farci su un lucro lecito e perciò ancor più schifoso.
E la memoria ha dei concorrenti. L’oblio, che non si cura. La negazione che si può proibire. Ma soprattutto la persistenza della propaganda monumentale (i «luoghi della memoria») creata da chi ha prodotto il danno che la memoria vorrebbe strappare all’oblio e alla negazione. L’Italia dei monumenti fascisti è in questo un buon esempio: con gli obelischi fallocratici e le scritte, tronfie come certi tweet, che sono paesaggio. O immagini più defilate e più solenni, come quelle che accolgono chi passa dall’anticamera della Sala Verde di Palazzo Chigi. Dove in uno slancio continuista sono allineate le fotografie ufficiali dei presidenti del Consiglio dei ministri, senza soluzione di continuità fra il Regno e la Repubblica. E dunque con tanto di foto incorniciata del Duce, di profilo, nella stessa cornicina bianca, con lo stesso filettino d’oro pallido, con gli altri e con a breve distanza un Parri dallo sguardo incredulo. Basterebbero una sacca di sangue scaduto e un aspersorio per spruzzare quella foto e ricordarsi di ricordare che sì, Mussolini non va tolto da quella filiera, a patto che ricordarlo non sia un modo per dimenticare il dramma di quell’epoca e il dolore che è costato liberarsene. Ricordarlo «senza infingimenti» avrebbe detto Napolitano nel suo registro; ricordarlo per dire che un’Italia «senza fascismo», come direbbe Mattarella, non è una ipotesi, ma un patto su cui l’Italia è diventata prospera.
Ricucire il rapporto fra memoria e storia — per difendere la memoria dalle sue fragilità e dai suoi concorrenti — è il compito di un cantiere che non chiude mai: quello della storia e del suo rinnovamento metodologico. Ma anche della cultura nel suo complesso: come dimostra un toccante esperimento di Francesca Comencini e Mia Benedetta, che con Bianca Nappi, Carlotta Natoli, Lunetta Savino, Simonetta Solder e Chiara Tomarelli hanno messo in scena, in forma di oratorio, il racconto delle partigiane romane e delle familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine. Testimonianze raccolte da Sandro Portelli con l’acribia dell’archeologo del passato prossimo e cucite con una purezza artistica estatica. Che insegna che la memoria va di moda, ma c’è un modo per desiderarne la permanenza.