Corriere della Sera

LA MEMORIA HA BISOGNO DELLA STORIA

- di Alberto Melloni

La memoria va di moda, moltiplica i suoi giorni, regola i conti con il passato. La memoria fa le leggi, anche se quella sulla Shoah dimentica la parola fascismo. La memoria ricorda la tragedia degli infoibati: e guai se non si accontenta­no. La memoria ricorda i caduti del terrorismo, gli uccisi, le bombe e le stragi: con date che non sono come le feste nazionali, che mettono il 25 aprile, il 2 giugno e il 4 novembre al riparo da tentazioni ripugnanti, ma quasi. I grandi anniversar­i — di cui furono garanti Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato e ora Franco Marini — solennizza­no i passaggi tondi: 150° dell’Unità d’Italia, 100° della Grande guerra, 70° della Resistenza-Liberazion­e-Costituzio­ne in un tutt’uno.

La memoria, però, ha una fragilità. Nel momento in cui alla generazion­e del pathos dovrebbe succedere la generazion­e dell’ethos, essa avrebbe bisogno che la storia, con il grigio distanziam­ento delle cose e la pignoleria critica di chi sta chino sulle fonti, le desse nerbo. Ma la nostra cultura ha espulso la storia dalla formazione delle classi dirigenti (se no qualcuno ricordereb­be Heinrich Brüning alla leadership tedesca di oggi...). La storia accademica si appaga nel deprecare narcisisti­camente i tempora ei mores e le lotte discontinu­e e l’onore reso al superego dell’intellettu­ale (pofferbacc­o!). Nuovi strumenti tecnologic­i sono ancora allo studio, spesso di chi spera di farci su un lucro lecito e perciò ancor più schifoso.

E la memoria ha dei concorrent­i. L’oblio, che non si cura. La negazione che si può proibire. Ma soprattutt­o la persistenz­a della propaganda monumental­e (i «luoghi della memoria») creata da chi ha prodotto il danno che la memoria vorrebbe strappare all’oblio e alla negazione. L’Italia dei monumenti fascisti è in questo un buon esempio: con gli obelischi fallocrati­ci e le scritte, tronfie come certi tweet, che sono paesaggio. O immagini più defilate e più solenni, come quelle che accolgono chi passa dall’anticamera della Sala Verde di Palazzo Chigi. Dove in uno slancio continuist­a sono allineate le fotografie ufficiali dei presidenti del Consiglio dei ministri, senza soluzione di continuità fra il Regno e la Repubblica. E dunque con tanto di foto incornicia­ta del Duce, di profilo, nella stessa cornicina bianca, con lo stesso filettino d’oro pallido, con gli altri e con a breve distanza un Parri dallo sguardo incredulo. Basterebbe­ro una sacca di sangue scaduto e un aspersorio per spruzzare quella foto e ricordarsi di ricordare che sì, Mussolini non va tolto da quella filiera, a patto che ricordarlo non sia un modo per dimenticar­e il dramma di quell’epoca e il dolore che è costato liberarsen­e. Ricordarlo «senza infingimen­ti» avrebbe detto Napolitano nel suo registro; ricordarlo per dire che un’Italia «senza fascismo», come direbbe Mattarella, non è una ipotesi, ma un patto su cui l’Italia è diventata prospera.

Ricucire il rapporto fra memoria e storia — per difendere la memoria dalle sue fragilità e dai suoi concorrent­i — è il compito di un cantiere che non chiude mai: quello della storia e del suo rinnovamen­to metodologi­co. Ma anche della cultura nel suo complesso: come dimostra un toccante esperiment­o di Francesca Comencini e Mia Benedetta, che con Bianca Nappi, Carlotta Natoli, Lunetta Savino, Simonetta Solder e Chiara Tomarelli hanno messo in scena, in forma di oratorio, il racconto delle partigiane romane e delle familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine. Testimonia­nze raccolte da Sandro Portelli con l’acribia dell’archeologo del passato prossimo e cucite con una purezza artistica estatica. Che insegna che la memoria va di moda, ma c’è un modo per desiderarn­e la permanenza.

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