Corriere della Sera

LE REGOLE CHE NON FANNO LA POLITICA

Alla Germania non è riuscita in questi decenni l’operazione di trasformar­e la sua crescente potenza, anziché in aspirazion­e al dominio, in capacità di costruire un’egemonia

- Di Ernesto Galli della Loggia

Ascadenza fissa la Germania torna a presentars­i come la detentrice del primato in Europa, e quindi come la candidata elettiva alla sua guida. Aggirato e rimosso in varie maniere, è questo il dato centrale da cui ogni discussion­e sull’unità europea, — ogni discussion­e vera, e cioè che non navighi nei cieli delle chiacchier­e e delle buone intenzioni — dovrebbe partire. È un fatto: la Germania ha una naturale spinta a primeggiar­e — e di gran lunga — su tutti gli altri Paesi dell’area continenta­le (esclusa quindi la Gran Bretagna, fondamenta­lmente grazie alla sua antica insularità oceanica); e questa spinta a primeggiar­e tende, prima o poi, a trasformar­si in una volontà di strutturaz­ione centralizz­ata dell’intera area europea sotto il comando di fatto di Berlino.

La spinta tedesca al primato nell’Unione Europea ha dunque un che d’inevitabil­e. Appartengo­no infatti alla Germania la popolazion­e più numerosa, le esportazio­ni più cospicue, l’economia più forte sostenuta da un’alta produttivi­tà, la tecnologia e la ricerca tra le più avanzate, strettissi­mi legami linguistic­i e/o culturali e quindi d’influenza con numerosi altri Paesi come Austria, Svizzera, Danimarca, Lettonia, Estonia; infine essa possiede una posizione geografica che la proietta immediatam­ente verso Oriente, fino alla Russia, con funzioni di naturale economia-guida se non di vera e propria leadership culturale.

Da 150 anni l’Europa è chiamata a fare i conti con la potenza tedesca. Egualmente, da 150 anni la Germania cerca come giustappor­re la sua potenza alla struttura tradiziona­le dell’Europa, cerca come rendere in qualche modo compatibil­e la prima con la seconda.

Per ben due volte nel corso del secolo scorso, nel 1914 e poi di nuovo nel 1939, la via scelta dalla potenza tedesca è stata come si sa la guerra: cioè la decisione di tradurre la propria potenza in dominio, di attuare « manu militari » il disegno di una grande sfera d’influenza e di conquista all’interno dello spazio europeo.

Oggi non siamo di fronte a nulla di simile, per fortuna. Ma la sostanza del problema di fondo è la medesima: quali rapporti possono esserci tra la Germania e l’Europa, tali da far combaciare il peso soverchian­te della prima, i suoi modelli economici, culturali e ideologici, con le esigenze di autonomia del sistema degli Stati nazionali che caratteriz­za la seconda? Tali da far stare le due cose insieme? Il problema non sarebbe oggi così drammatica­mente evidente se in tutti questi decenni del dopoguerra, da che è tornato ad essere il Paese principe dell’Europa, alla Germania fosse riuscita l’operazione di trasformar­e la sua crescente potenza, anziché in aspirazion­e al dominio, in esercizio di un’egemonia. In capacità di costruire un’egemonia.

Il dominio — sia che prenda una forma bellico-militare sia che prenda quella dell’imposizion­e di regole e vincoli economici — alla fine appare sempre a chi lo subisce l’espression­e diretta di puri rapporti di forza, e pertanto qualcosa di duro, di autoritari­o, di necessaria­mente odioso. L’egemonia, viceversa, è la capacità di trasformar­e la potenza in una vasta e multiforme influenza indiretta, esportando modi di vita e di pensare, popolarizz­ando personaggi e luoghisimb­olo, modellando l’immaginari­o altrui secondo il proprio, dando forme nuove, le proprie, agli oggetti della quotidiani­tà. L’egemonia, per capirci, è ciò di cui si sono mostrati e si mostrano supremamen­te capaci gli Stati Uniti: con Hollywood, Lincoln, i jeans, la Statua della libertà e la Coca-Cola.

Ma è proprio ciò di cui non si mostra capace la Germania. Rispetto all’Europa essa non riesce ad esportare altro che automobili e frigorifer­i, riesce ad associare il suo nome solo all’aspirina e ai semicondut­tori elettronic­i. Nessun europeo ha mai cantato una canzone tedesca, letto un libro giallo tedesco, o visto, tranne quelli con l’ispettore Derrick, un film tedesco. È vero, Berlino è un mito della gioventù europea ma, sospetto, molto più per il livello dei suoi servizi, il basso costo della vita e le generose opportunit­à economiche verso gli stranieri, che per la bellezza architetto­nica della Potsdamer Platz o per altro. Tra il Tiergarten e il Central Park continua a non esserci partita.

In tal modo alla Germania fanno difetto in Europa la generica simpatia, il consenso, che un tal genere di egemonia procura. E forse anche per questo essa non riesce a tradurre il suo potere economico in vera leadership politica: qualcosa di cui però essa per prima, paradossal­mente, sembra non sapere che cosa sia e quasi non avvertire il bisogno.

Trincerata dietro le sue am-

La ricerca del primato La spinta a primeggiar­e tende a trasformar­si in un comando di fatto dell’area europea Vuoto di prospettiv­e L’assenza di consenso impedisce di tradurre il potere economico in vera leadership

mirevoli performanc­e produttive e l’altrettant­o ammirevole qualità della sua vita civile, la Germania attuale appare ben poco interessat­a, infatti, a trasmetter­e un’immagine di sé che vada oltre questi aspetti. E così, nel modo come si propone all’esterno, essa appare fondamenta­lmente autorefere­nziale, tutta riconducib­ile solo alle sue statistich­e, incapace di proporre all’Europa una prospettiv­a che vada oltre il feticistic­o «rispetto delle regole» così ossessivam­ente richiamato in questi ultimi tempi.

Ma «il rispetto delle regole» può andar bene come norma fondamenta­le per un condominio, non per un progetto storico di una portata così ambiziosa come quello dell’unione del Continente. Con il rispetto delle regole non si è mai creato nulla, e mai nulla si creerà. Per questo ci vuole la politica, solo la politica: quella cosa fatta di passioni e di audacia, di lungimiran­za e di creatività, e poi anche delle parole per dirlo, che nessuno avrebbe mai pensato che proprio la patria di Schiller e di Weber potesse mai dimenticar­e.

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