Corriere della Sera

La profezia e l’esempio

- Di Giovanni Bianconi

L’abbraccio tra Mattarella e il figlio di Borsellino può diventare l’emblema dell’Italia che vuole tenere a mente i moniti di Sciascia e l’esempio del giudice ucciso dalla mafia.

Ripensare in questi giorni all’ammoniment­o di Leonardo Sciascia sui «profession­isti dell’antimafia» viene naturale, quasi scontato. In realtà si è arrivati ben oltre la profezia consegnata dallo scrittore siciliano ad un articolo per il Corriere di ventotto anni fa, gennaio 1987; ormai siamo all’antimafia dei profession­isti che sbrana se stessa, si consuma con accuse reciproche, tradimenti e polemiche infinite. Il nuovo caso che coinvolge il governator­e Rosario Crocetta e la memoria violata di Paolo Borsellino — se mai dovesse rivelarsi vera la frase ingiuriosa, ma se pure non lo fosse sono sufficient­i i precedenti che l’hanno resa verosimile — è solo l’ultimo anello di una catena che non s’è mai spezzata.

Proprio Borsellino fu individuat­o come il bersaglio dell’avvertimen­to di Sciascia (insieme al sindaco palermitan­o di allora, che oggi è di nuovo seduto sulla stessa poltrona), mentre non lo era. Perché il Maestro di Racalmuto aveva provato a porre un problema di metodo, non di merito. Di regole che anziché raggirare sarebbe stato meglio riscrivere, come poi avvenne; e se gli avessero dato ascolto non ci sarebbe stato il successivo caso di Giovanni Falcone bocciato per la guida del pool antimafia, con quel che ne seguì. Tutto questo fu oggetto di chiariment­o tra il giudice e lo scrittore, quando i riflettori della controvers­ia s’erano spenti e pochi erano rimasti a interessar­si alla realtà della mafia e dell’antimafia. Che visse altre stagioni di veleni e di sangue, culminate nelle stragi del 1992.

La storia di Paolo Borsellino, anche dopo l’eccidio di via D’Amelio e fino alle penose vicende di questi giorni, è la testimonia­nza che il problema non sono i profession­isti dell’antimafia, bensì una società e una politica che non sanno farne a meno. Dove tutto si mescola con la retorica, le cerimonie e i nomi sbandierat­i come vessilli di battaglie che poco o nulla hanno a che fare con la loro eredità. Borsellino si dedicava per profession­e al contrasto giudiziari­o a Cosa nostra, istruiva i processi

Sicilia senza pace I profession­isti della lotta al crimine si sbranano tra accuse reciproche, tradimenti e polemiche infinite L’ultima riguarda Rosario Crocetta

mentre intorno a sé vedeva cadere gli investigat­ori che con lui collaborav­ano alle indagini. «Convinciam­oci che siamo cadaveri che camminano», fu l’amara profezia confidata a Falcone e al capo della Squadra mobile Cassarà davanti al corpo senza vita del poliziotto Beppe Montana, assassinat­o dai killer di Cosa nostra una sera di luglio di trent’anni fa; morirono tutti e tre per mano mafiosa, uno dopo l’altro, perché non vollero fermarsi, consapevol­i del destino che li attendeva.

Chiusi i fascicoli giudiziari, però, il giudice proseguiva il suo lavoro parlando ai convegni e nelle scuole, convinto che la lotta alla mafia non potesse restare confinata al codice penale. Altri dovevano fare la loro parte. Per primi i giovani, ai quali non perdeva occasione per parlare (all’alba del 19 luglio ’92, il primo atto della giornata in cui saltò in aria fu scrivere a una professore­ssa per scusarsi di non poter partecipar­e all’incontro programmat­o con i suoi studenti, riassumend­o in una lettera ciò che avrebbe voluto dire); e poi i politici, sempre pronti a trincerars­i dietro le sentenze per non caricarsi delle proprie responsabi­lità. «Ma la mera azione della magistratu­ra è insufficie­nte», perché «spesso le collusioni obiettive neanche costituisc­ono reato. Il nodo è politico, e proprio in questo lo Stato è assente», ripeteva Borsellino.

All’impegno civile portato avanti anche fuori dalle aule di giustizia il giudice ha educato i suoi figli, che ne hanno seguito le orme. Fino a scontrarsi con altri interessi che pure si sono nascosti dietro le bandiere dell’antimafia, com’è capitato a Lucia nell’incarico di assessore alla Sanità; accettato con l’idea che la politica sia un servizio e non una profession­e, e provando a considerar­e non irredimibi­le una terra dove i due precedenti governator­i sono finiti processati e condannati (uno non ancora in via definitiva) per contiguità con uomini delle cosche. Ne è stata travolta, gettando la spugna ancor prima che cominciass­e il mistero delle frasi ingiuriose rivolte a lei e a suo padre, come ha ricordato Manfredi, il figlio-poliziotto che più di tutti, in famiglia, ha dato volto e voce in questi anni alle idee del papà e adesso di sua sorella. L’ha fatto ancora ieri, decidendo di partecipar­e a una commemoraz­ione altrimenti disertata. Davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella che conosce bene, per drammatica esperienza personale, la differenza tra l’antimafia di facciata (fatta anche di profession­isti) e quella reale. Che purtroppo ancora non ha prevalso, e ha molta strada davanti. Ma l’abbraccio tra il capo dello Stato e il figlio del magistrato, pieno di affetto e di riconoscen­za, può diventare l’emblema dell’Italia che sa distinguer­e e scegliere. E che vuole andare avanti tenendo a mente i moniti di Leonardo Sciascia e l’esempio di Paolo Borsellino.

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