Corriere della Sera

«Sognavo la Germania per curare Raghad Sono stato io a lasciare il suo corpo in mare»

L’uomo a Milano dopo lo sbarco a Siracusa: «Era una bambina esile, amava scrivere e disegnare»

- Alessandra Coppola Andrea Galli

MILANO Eyas Hasoun è un uomo robusto di cinquant’anni, siriano della città di Aleppo, dove aveva un grande negozio di distribuzi­one di farmaci. Raghad, la quartogeni­ta delle sue sei figlie, era una bimba esile di undici anni, appassiona­ta di disegni e scrittura, malata di una grave forma di diabete che aveva iniziato a minarle il pancreas. Per una notte, la notte dell’agonia, su un barcone nel Mediterran­eo, in uno spazio lungo una decina di metri, largo cinque e popolato da 320 immigrati, Raghad ha tenuto con la sua mano destra un dito di Eyas. «Si stava spegnendo... Mormorava “papà, papà” e non aggiungeva nessuna parola. Non ne aveva la forza ma in realtà non ce n’era bisogno: “papà” significa che sta a te occuparti di tutto, risolvere i problemi qualunque essi siano, proteggere la tua bambina sacrifican­doti se necessario. Io non l’ho fatto. E questa colpa mi rimarrà addosso per l’intera esistenza. Insieme alla scelta di partire verso la Sicilia. Avevamo preparato due grossi zaini: uno lo tenevo io e il secondo mia moglie Nailà, nel timore che avrebbero potuto dividerci. Gli zaini erano pieni di fiale di insulina, e di macchinari per misurare i valori del diabete e le giuste dosi di medicinale da somministr­are. Sulla spiaggia di partenza, vicino ad Alessandri­a, gli scafisti ci hanno ordinato di raggiunger­e una piccola barca che distava un centinaio di metri. Inutile opporsi, erano armati di kalashniko­v. L’acqua ci arrivava alla testa. Il mio zaino si è impregnato d’acqua. Mia moglie è riuscita a salvarlo, l’ha sollevato sopra il capo, allungando le braccia e soffrendo in silenzio per il dolore. Uno scafista le ha urlato di abbandonar­lo. Mia moglie ha risposto che quello zaino era più prezioso della sua stessa anima, l’ha pregato d’avere pietà. Lo scafista gliel’ha strappato di mano, l’ha scaraventa­to in mare. Ci siamo immersi, lo abbiamo recuperato ma era ormai compromess­o. I macchinari non funzionava­no, le fiale erano inservibil­i, era difficile calcolare bene le dosi. Ho provato, ho provato ad aiutare la mia piccola Raghad... Ma senza macchinari, senza insulina, ero impotente. Avevo il buio che mi stava travolgend­o».

Nel 2013, in fuga dalla guerra in Siria, la famiglia Hasoun si era trasferita in Egitto. Inizialmen­te si era ben inserita pur perdendo giorno dopo giorno i risparmi d’una vita. Le bimbe studiavano, praticavan­o sport; la maggiore aveva cominciato l’università, facoltà di Farmacia. Negli ultimi mesi, nel caos egiziano tra rivoluzion­e e restaurazi­one, l’ostilità nei confronti degli stranieri si è aggravata. Dice il signor Hasoun, sempre accompagna­to da un pacchetto di sigarette leggere: «Noi siriani siamo stati messi nel mirino. Non potevamo più stare. Avevo paura per le mie figlie. E neppure al Cairo, la città che avevamo scelto per vivere, c’era la possibilit­à di curare

Insieme

Papà Eyas e Raghad, quartogeni­ta delle sei figlie. La famiglia è originaria di Aleppo, in Siria. Nel 2013 il trasferime­nto in Egitto. La partenza su un barcone verso la Sicilia è avvenuta dalla zona di Alessandri­a. Lo sbarco sulla costa di Siracusa al meglio Raghad. Così avevo pensato di raggiunger­e la Germania. Volevamo provare con le cellule staminali». Stanze ampie, soffitti alti, gentilezza, Casa Suraya, gestita dal consorzio della Caritas «Farsi prossimo», ospita decine di profughi siriani. La famiglia Hasoun, sbarcata giovedì a Siracusa è subito salita in treno a Milano. Sono le quattro del pomeriggio. Eyas accetta di incontrarc­i con la presenza di un interprete; ha gli occhiali, gli occhi chiari, folti capelli bianchi, pantaloni corti, una maglietta, un cellulare sul quale fa scorrere le fotografie delle figlie, in posa da sole oppure abbracciat­e insieme. A Siracusa si era presentato dagli investigat­ori per raccontare di Raghad. La sua versione era stata subito accolta. C’era il passaporto della bimba, c’erano le testimonia­nze di decine di immigrati. Eyas Hasoun non cerca vendette. Non cerca nemmeno giustizia. Si domanda, coprendosi il viso, dove ha sbagliato. «La mia bimba stava sempre peggio. Faticava a muoversi. Eravamo al terzo giorno di viaggio. La costa egiziana era ancora vicina, si vedeva. Quegli avidi sciacalli aspettavan­o altri immigrati, per prendere più soldi. Ho chiesto se, nel caso fosse giunta una nuova barca, sarei potuto tornare indietro con la famiglia. Hanno detto di sì. Ma un amico ha sentito che gli scafisti via radio ordinavano agli altri in arrivo di caricarci e buttarci. Abbiamo deciso, con l’approvazio­ne di chi era sulla nostra imbarcazio­ne, che viva o morta Raghad sarebbe rimasta con noi fino alla Sicilia. Si è Il tentativo Mi sono tuffato in acqua per riprendere le fiale, ma ormai erano inservibil­i. Ho provato ad aiutarla, ma ero impotente. Avevo il buio che mi stava travolgend­o spenta al quinto giorno. L’abbiamo appoggiata su un piccolo pezzo del ponte, era tutta rannicchia­ta, attorno c’era gente accalcata, stremata, svenuta. Poi... poi il suo corpo si stava... volevo che le altre figlie non avessero di lei un’immagine... c’erano delle persone esperte di religione. Hanno celebrato la cerimonia funebre... abbiamo lavato i suoi vestiti in mare... l’ho adagiata in acqua. Quando mancava una settimana alla partenza, avevo radunato le mie figlie. Avevo mostrato loro da YouTube i video sulle tragedie nel Mediterran­eo. Non avevo esitato a mostrare le immagini più crude. Volevo essere sicuro che sapessero i rischi e i pericoli. Ci hanno risposto in coro: “Mamma e papà, si va, uniti”. Solo una di loro, Raghad, che era la guida, la piccola con maggiore coraggio e personalit­à, ha avuto un’esitazione. Ha detto: “Io sono malata, sono il punto debole. Se volete, lasciatemi pure qui in Egitto e voi proseguite”».

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