Corriere della Sera

L’opera al nero di Le Corbusier

Rifondò l’architettu­ra ma era un antisemita che lodò Hitler e progettò per il regime di Vichy

- Di Pierluigi Panza

Lettere alla madre «Il Führer può compiere una grande operazione: pianificar­e l’Europa»

Troppo grande e, come tutti i grandi, a guardare bene dentro scopri troppe debolezze. Cinquant’anni fa, il 27 agosto 1965, moriva il rifondator­e dell’architettu­ra, il padre del Movimento Moderno, il progettist­a che ha mandato in pensione il tetto e le tegole, le finestre e le tapparelle e si è messo a costruire volumi nella luce, vetrate a nastro, tetti-giardino, pilotis che sollevano l’edificio da terra. Il tutto secondo l’unità di calcolo del Modulor, ovvero un uomo a braccio alzato come misura (in genere minima) di tutte le cose costruite.

Su Le Corbusier le celebrazio­ni si stanno moltiplica­ndo, dalla mostra al Beaubourg di Parigi fino a quelle in Svizzera, dai convegni al Maxxi di Roma a quelli nelle università. La sua influenza si è sparsa nel mondo, da Chandigarh in India all’America, la sua poetica è stata l’ultima attraverso la quale l’architettu­ra è diventata una forma di filosofia pratica che ha cambiato l’esistenza delle persone, ha investito tutte le scale — dal cucchiaio alla città, come si era soliti dire. Ha spogliato l’architettu­ra da ogni orpello, da ogni maschera, restituend­ole un attestato di verità. Ha costruito una settantina di edifici in dodici Paesi, scritto più di cinquanta testi, primo tra tutti Vers une architectu­re, ultima teoria dell’architettu­ra e Bibbia della modernità. Ha dato fiato a un mantra della Modernità, less is more, che ritroviamo anche nel recente Le Corbusier. L’arte decorativa, a cura di Domitilla Dardi (Quodlibet).

Premesso tutto questo, che rende ragione dei tributi, alcuni libri usciti per l’anniversar­io rivelano anche il volto opportunis­tico che si nascondeva dietro i grandi occhialoni tondi e l’immancabil­e farfallino di Charles- Edouard Jeanneret (questo il suo vero nome), nato a La Chaux-de-Fonds il 6 ottobre 1887. Debolezze e opportunis­mi che si sommano, per alcuni critici, ai discutibil­i esiti, come modelli per le periferie urbane, della sua Unité d’Habitation di Marsiglia, conosciuta anche come Ville Radieuse, che tuttavia di radioso ha poco.

Tre libri, Le Corbusier, un fascisme français di Xavier de Jarcy (Albin Michel), Le Corbusier, une vision froide du monde di Marc Perelman (Michalon) e Un Corbusier del critico e direttore di «L’Architectu­re d’aujourd’hui» François Chaslin (Seuil) danno la consueta spallata al mito, sebbene di alcune strizzatin­e d’occhio di Le Corbusier ai totalitari­smi del Novecento già si sapesse. Ma se la «sua visione estetica non può essere separata da quella politica » , come afferma François Chaslin e come, per decenni, è stata presentata nelle università europee, perché alla mostra al Centre Pompidou inaugurata lo scorso aprile ( Le Corbusier. Mesures de l’homme) e alle molte che si moltiplica­no (al Yap Fest del Maxxi è stato proiettato il film Le Corbusier, 50 storie di incontri che hanno rivoluzion­ato il design), manca proprio il rapporto tra l’architetto e la storia politica dei suoi tempi? Semplice, secondo gli autori dei tre libri citati: «Il mito che circonda ancora Le Corbusier è che sia stato il più grande architetto del XX secolo e anche un uomo generoso, un poeta», afferma de Jarcy. «Ma questa è una grande bugia collettiva».

Già intorno al 1925 Le Corbusier è affascinat­o dal fascismo italiano, si avvicina al Faisceau di Georges Valois in Francia, stringe legami con il medico filo-eugenetico Pierre Winter e con l’esoterista René Guénon, i cui scritti appaiono comunque molto diversi dai toni illuminist­ici di quelli dell’architetto, sebbene entrambi gli autori risultino un po’ apocalitti­ci. Quando il maresciall­o Pétain si trasferisc­e a Vichy ( 1 luglio 1940), dopo due giorni lui lo segue. E dal governo collaboraz­ionista di Vichy, nella persona del ministro degli Interni, Marcel Peyrouton, Le Corbusier ottiene la nomina per la ricostruzi­one di aree urbane distrutte e per far parte della commission­e per la nuova edilizia. Si potrebbe continuare, tanti sono i legami: forse sarebbe diventato l’Albert Speer di Vichy, l’equivalent­e francese del progettist­a di Hitler (ma il rapporto con i committent­i è un classico dell’architettu­ra).

Le Corbusier mostra una visione anche peggiore quando scrive alla madre. È il 1940: «Gli ebrei — annota — stanno andando incontro a un brutto periodo. Sono contrito. Ma sembra che sia a causa della loro cieca sete di denaro che ha corrotto il Paese». In agosto aggiunge: «Il denaro, gli ebrei, la massoneria, tutto questo subirà la giusta legge». Ancora, in ottobre: «Hitler può coronare la sua vita con un’operazione grandiosa: la pianificaz­ione dell’Europa».

Tuttavia continuò naturalmen­te a costruire per ebrei svizzeri. Del resto i suoi erano pensieri condivisi da parte dell’intellighe­ntia e Le Corbusier era persona che diceva ciò che la gente (o anche sua madre) voleva sentirsi dire, come ha affermato Nicholas Fox Weber, autore della biografia Le Corbusier. A Life del 2008, al «New York Times».

Questi scenari resterebbe­ro solo il retrobotte­ga del grande architetto, una visione da «senso comune» o il rimosso biografico se non conferisse­ro anche una nuova interpreta­zione al suo Modulor, ovvero a quella «gamma di misure armoniose per soddisfare la dimensione umana, applicabil­e universalm­ente all’architettu­ra e alle cose meccaniche» (Le Corbusier). Ovvero alla base della sua architettu­ra. Definire un progetto partendo da questo Modulor è sempre stato ritenuto dai custodi del Movimento Moderno un approccio umanistico, antropocen­trico e quasi spirituali­sta. Ebbene, specie secondo Perelman, alla luce di quanto emerge dalla biografia anche questa interpreta­zione va rivista: Il « Modulor è una forma di matematizz­azione del corpo, di standardiz­zazione del corpo e di razionaliz­zazione». Qualcosa di molto lontano dalla base per fondare un’architettu­ra a dimensione umana, insomma.

La sua urbanistic­a, poi, ovvero il Plan Voisin elaborato negli anni Venti per Parigi, diventa agli occhi di queste osservazio­ni, e delle successive teorizzazi­oni, quasi il modello impositivo per realizzare una «Società chiusa», che controlla le masse, e in cui si rivela la dimensione ideologica del progettist­a e, forse, della progettazi­one stessa.

Quel tratto di città ideato da Le Corbusier, che intende replicare il Marais con 18 torri di vetro su rettangoli verdi, sembra un luogo «in cui l’individuo è distrutto dal gruppo», scrive de Jarcy. Le successive sperimenta­zioni del Movimento Moderno nelle periferie urbane lo hanno spesso dimostrato.

Critici Diversi studiosi avanzano perplessit­à sul suo stile: la sua non è un’arte umanista

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In mostra Qui sopra: l’architetto svizzero (1887-1965). In alto: la mostra Le Corbusier. Mesures de l’homme al Centre Pompidou di Parigi fino al 3 agosto

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