Tradizione
Se in un Paese per vecchi come il nostro le nuove generazioni sono merce sempre più rara, figurarsi in uno dei tanti paesini sperduti e dismessi dove chi è giovane se la fila appena può…
«Invece io resto. Non voglio andarmene» assicura Jacopo Barbi, 25 anni, nato, cresciuto e radicato a Monticchiello (Siena) in Val d’Orcia. Di quel borgo incantevole, circa 200 anime in gran parte con i capelli grigi, Jacopo è l’ultimo ventenne. I suoi ricci scuri, il suo sorriso luminoso fanno di lui un simpatico alieno, guardato con affetto e un po’ di stupore dai compaesani. Che a quell’ultimo germoglio così tenace han deciso di rendere un tributo speciale. Una festa di compleanno in forma di spettacolo.
A Monticchiello si usa così. Da quasi mezzo secolo il paese si fa teatro. Un’intera comunità che ogni estate porta in piazza la sua storia, la sua cultura, gli ultimi accadimenti. Un Teatro Povero e senza trucchi, schietto come la gente del posto, specchio di un microcosmo erede dell’antica tradizione orale delle maggiolate, delle giullarate. Un «autodramma», lo definì Giorgio Strehler, grande estimatore. E così, anno dopo anno, a Monticchiello si è messo in scena il consumismo, la crisi, la paura… Stavolta, 49esima edizione, dal 25 luglio al 15 agosto, il tema è «Il paese che manca», riflessione su chi parte e chi resta, vista soprattutto in quest’ultima ottica.
Quella del ventenne superstite. «In scena mi chiamo Gigino, ma storia è la mia — assicura Jacopo, figlio di agricoltori locali —. La sfida di restare nonostante tutto: il lavoro che non c’è, gli amici che se ne sono andati, la mancanza di svaghi. Per campare ho fatto quel che trovavo, prima il meccanico in un’officina, ora sono impegnato in un progetto civile. Non so se la vita dei campi fa per me, ci sto pensando». Quel che gli pesa è una certa solitudine. «Se voglio incontrare dei coetanei devo fare una quarantina di chilometri. Ma qui la lontananza è una condizione comune». D’altra parte restare ha i suoi vantaggi. «Mi sento coccolato, è come essere in una grande famiglia. Il mio futuro voglio viverlo qui».
«Jacopo lo conosciamo da sempre, è nato l’anno in cui mettevamo in scena lo spettacolo sulla scorciatoia per la felicità — ricorda Andrea Cresti, 77 anni, dagli anni Ottanta regista della cooperativa Teatro Povero —. La sua presenza ha offerto al paese uno spunto di riflessione attualissimo. Perché mentre molti di noi se ne vanno, altri arrivano da fuori, a cercare qui il loro futuro».
Alle spalle di ogni spettacolo un complesso lavoro collettivo. «Si comincia a dibattere vari temi in assemblea, poi in un gruppo più ristretto e di nuovo la proposta definitiva in assemblea. Solo dopo il voto finale inizia la scrittura, di cui mi faccio carico, ma sempre a stretto confronto con il gruppo. A giugno cominciano le prove. In scena una cinquantina di noi, scelti secondo i ruoli da interpretare. A occuparsi della macchina
Dal 1967 il Teatro Povero di Monticchiello ogni anno mette in scena in piazza i suoi «autodrammi»
L’ultima produzione di Teatro Povero incrocia le tematiche di una crisi, quella seguita al 2008, ormai non più solo economica ma anche sociale Sul palco Un momento di «teatro in piazza». Dal 25 luglio al 15 agosto andrà in scena «Il paese che manca», 49esimo autodramma di Teatro Povero, alla cui drammaturgia partecipa tutta la comunità scenica falegnami, fabbri, elettricisti del luogo. Niente costumi, parlando dell’oggi si usano abiti normali. Alla fine il paese intero è coinvolto, dalla trattorie agli alberghi alla farmacia. Attorno ai nostri spettacoli è nata una piccola economia. E noi stessi ci autofinanziamo gestendo una taverna».
Un esempio unico di drammaturgia partecipata dove tutti lavorano gratis per qualcosa che li rappresenta, li tiene insieme, li aiuta a recuperare un’identità culturale e sociale.
Stavolta il confronto è con una giovinezza precaria. Con l’ultimo ventenne che resta, o forse andrà. Festa di resistenza o festa di addio? «Immagino quando si celebrerà il compleanno dell’ultimo ventenne rimasto in Italia » profetizza amaro Cresti, anche lui in scena nei panni di un misterioso giocattolaio. «Che alla fine si ritrova in mano i fili aggrovigliati delle sue marionette indisciplinate. Così che si ribaltano i ruoli: loro diventano i burattinai, Pinocchio sono io».