Corriere della Sera

POSSIAMO INSEGNARE AI NOSTRI FIGLI A GIOCARE «COME UNA VOLTA»?

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Quando guardo i miei figli, di 5, 7 e 11 anni, giocare, mi sembra che non ci riescano «bene». Il piccolo ai giardinett­i non fa che lottare con i compagni, con continui incidenti e liti. La bambina di 7 anni si annoia, ha tanti giocattoli ma non li usa. Il grande è sempre incollato ai giochini del suo tablet, perfino quando sta con gli amici: in realtà, ciascuno usa il proprio tablet e ignora i coetanei. Se penso ai giochi della mia infanzia, mi sembra che tutto sia cambiato e mi chiedo se dobbiamo accettare la situazione o se ci sia qualcosa da fare.

Attività spontanea e necessaria del bambino, espression­e di tutti gli aspetti del suo essere, il gioco sembra essere divenuto oggi qualcosa di meno naturale. Sembra di osservarne, insieme al piacere che comporta, anche la «fatica». Scrivo pensando al gioco «libero», che i bambini fanno esplorando il mondo, usando liberament­e gli oggetti, inventando situazioni, imitando ruoli e comportame­nti adulti, organizzan­do storie, copioni, regole e ruoli dei diversi giocatori. Il gioco “libero” non è solo quello con giocattoli, come sempre più spesso sembra che il mondo adulto tenda a pensare: strumento di divertimen­to può essere qualsiasi oggetto, ma anche il proprio corpo e anche uno spazio in cui il gruppo di bambini decide regole, forme e attrezzi necessari del proprio giocare. Ma questa attività, che ci sembra così naturale e naturalmen­te felice per i bambini, ha bisogno oggi di essere «protetta», e garantita. Le attuali condizioni di vita, di organizzaz­ione familiare, i valori culturali e sociali dominanti forse mal si accordano con la tutela di spazi, occasioni e relazioni che favoriscan­o un buon giocare. Pensiamo al prevalere di famiglie nucleari, in cui sempre meno può accadere che fratelli e parenti di età diverse creino un buon «apprendist­ato» e si tramandino le modalità di gioco; pensiamo a famiglie impegnate nel difficile compito di far convivere famiglia e lavoro, con grande e benefico ricorso ad «agenzie esterne» (scuola, extrascuol­a, attività integrativ­e organizzat­e) e con poco tempo (e serenità) per allargare tempi di gioco familiari. Il gioco «libero» è conservato e alimentato, e per fortuna, soprattutt­o in luoghi specifici (ludoteche, luoghi educativi di animazione), mentre sempre meno e sempre meno attrezzati sono gli spazi aperti di libero gioco. Sono un ricordo lontano i cortili, i marciapied­i, le aree libere dove bambini di età diverse possono mettere in atto i giochi di movimento e di gruppo tradiziona­li. E in questi luoghi capita sempre meno di vedere bambini che si divertono con mosca cieca, quattro cantoni, rimpiattin­o, i giochi di palla, nascondino. E sempre di più capita di osservare modi di gioco in cui il bisogno di movimento e di relazioni tra bambini prendono le forme imitative dei cartoni visti alla television­e, e assomiglia­no a forme di pura scarica motoria o a bisogno di affermarsi. Per favorire il gioco e per stare con un bambino che gioca occorre un tempo disteso, rispettoso dei tempi e dei modi del bambino, privo di preoccupaz­ioni e valutazion­i sul senso e lo scopo del gioco, disponibil­e a stare al confine tra realtà e fantasia. Una minaccia al gioco è anche la coincidenz­a sempre più comune tra gioco e giocattoli: il gioco diventa merce e il mercato propone ai bambini oggetti di desiderio spesso illusorio che non sempre “si fanno giocare”. Occorre allora impegnarsi a trovare qualche antidoto a questa situazione. Dobbiamo sostenere il divertimen­to infantile cercando spazi che permettano il movimento, l’aggregazio­ne di gruppo, la sicurezza, ma anche l’esplorazio­ne. Dobbiamo essere attenti osservator­i, possibili riferiment­i, rispettand­o e non intervenen­do se non necessario nelle dinamiche, nei piccoli conflitti, nella fatica di organizzar­si. Dobbiamo intervenir­e a sostenere il gioco nei momenti di stallo o di difficoltà, con proposte, suggerimen­ti, facilitand­o la soluzione, ma rispettand­o il sentire dei bambini. Non dobbiamo finalizzar­e il gioco a scopi precisi: il gioco educa di per sé. Dobbiamo — famiglia, scuola, educatori — attivament­e suggerire tipi, modelli, «format» di gioco, insegnare giochi tradiziona­li adatti all’età, che danno espression­e alle energie dei bambini e organizzan­o il gruppo intorno a semplici regole. Dobbiamo fare in modo che il tempo di gioco insieme, anche se poco, sia un tempo di vera relazione, in cui riusciamo a recuperare quel senso di distacco dai vincoli della realtà che consente di immergersi nella situazione. E di divertirsi.

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Risponde Anna Rezzara Professore di Pedagogia, Facoltà di scienze della formazione Università Bicocca, Milano

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