Silenzio e orgoglio dei colleghi «Non dite che se la sono cercata Lavorano per portarvi il gas»
In apnea. Le famiglie dei quattro italiani rapiti non respirano più da lunedì. Da quando hanno avuto la conferma, dalla Farnesina, di essere finiti nell’incubo cominciato con una telefonata dalla Libia. Il rapimento, appunto. L’incertezza della sorte, la mancanza di notizie, lo sgomento e l’attesa.
Gino Tullicardo, della provincia di Roma, Fausto Piano, di Capoterra (Cagliari), Filippo Calcagno, di Piazza Armerina (Enna) e Salvatore Failla, di Carlentini (Siracusa) sono nelle mani di rapitori che sono riusciti a sequestrarli lungo il tragitto fra la Tunisia e il compound della Mellitah Oil Gas Company, una sessantina di chilometri a ovest di Tripoli. Lavorano tutti per la Bonatti, multinazionale da seimila impiegati in tutto il mondo, che ha sede a Parma e che si occupa di costruzione e manutenzione di impianti petroliferi, gasdotti per la produzione energetica dell’industria, approvvigionamenti e ingegneria. «La nostra sfida» annuncia il sito web della società, «è realizzare progetti nelle condizioni ambientali e logistiche più critiche, in siti remoti».
Ieri alla Bonatti non erano tutti muti. Di più. Non una parola, nemmeno per una dichiarazione di vicinanza alle famiglie o per parlare del dispiacere per quello che sta succedendo, da nessuno dei dirigenti o dei lavoratori che entravano e uscivano dall’azienda. Impossibile qualsiasi tentativo di raccontare dall’interno chi sono e che ruoli hanno i quattro rapiti dei quali fino a sera né la Bonatti né il ministero degli Esteri hanno reso noti i nomi.
A farlo ci ha pensato un post diffuso via Facebook dai colleghi dei sequestrati: la fotografia di uno striscione appeso all’ingresso del compound di Wafa, uno dei centri libici dove l’azienda di Parma è al lavoro. C’è scritto «Freedom for Gino, Filippo, Salvo e Fausto». Uno di quei colleghi, Manuel Bianchi, scrive: «Questa volta non ammetto “se la sono cercata”, ma solo #Solidarietà. Quello che è successo in Libia oggi poteva benissimo accadere a me fino ad un anno fa. Ci si reca in quei posti solo per lavorare e non per divertirsi; per farvi arrivare il gas con il quale vi riscaldate in inverno, con il quale vi raffreddate in estate (ebbene sì) e con il quale vi fate da mangiare tutto l’anno».
Filippo Calcagno, sessantacinque anni, sposato e padre di due figlie, è un supervisore meccanico che prima di lavorare per la Bonatti ha girato il mondo come tecnico Eni. «Scusate ma non possiamo dire nulla» ripete una voce giovane che risponde al telefono di casa. Solo ansia e nessun commento anche dalle altre famiglie. Scarsissime le informazioni su Gino Tullicardo che, unico dettaglio noto, vive nella provincia di Roma.
A Capoterra, nel Cagliaritano, parlano gli amici del capo officina Fausto Piano, sessant’anni, padre di un ragazzo che da ieri non parla nemmeno con gli amici più stretti per la tensione e la preoccupazione. È una persona molto conosciuta, Fausto, e da tanti anni lavora all’estero, in particolare in Libia, territorio che conosce così bene da aver inserito sul suo profilo Facebook Tripoli come città di residenza. «Era qui fino a pochi giorni fa», rivela un suo concittadino. «La sua era una vacanza per riposarsi qualche giorno prima di ripartire per andare a lavorare in Nord Africa». Il sindaco Francesco Dessì dice che «Fausto è una bravissima persona, oltre che un gran lavoratore. Siamo tutti preoccupati».
Carlentini è il piccolo centro del siracusano dove vive Salvatore Failla, 47 anni, sposato e padre di due ragazze di 14 e 22 anni. Pippo Basso, il sindaco, dice che «noi stiamo cercando di sostenere il più possibile i familiari», assicura che i suoi collaboratori e tutta l’amministrazione sono «pronti a fornire ogni forma di solidarietà e di assistenza».
Solidarietà Manuel Bianchi, stessa azienda: «Poteva succedere a me. Si va lì a lavorare»