L’ipotesi dei banditi, le voci sulle milizie «laiche» I misteri di un sequestro
Chi ha rapito gli italiani? E per quale motivo? L’ipotesi che va per la maggiore tra gli osservatori è quella del sequestro a scopo di estorsione. Aggravato, ingigantito e soprattutto complicato dal fatto che la Libia resta un Paese profondamente diviso, lacerato da lotte interne che sono prima di tutto tribali, non hanno nulla a che fare con l’Islam e la guerra di religione, e tuttavia questi fattori nella confusione generale possono assumere valenze importanti. «Ai banditi può fare comodo ammantarsi di una patina ideologica. Può servire a fare paura. E anche per darsi un’aureola di santità che in fondo non hanno per nulla», dice Marco Vignali, uno dei più noti tra i tanti imprenditori italiani che da molti anni operavano nel Paese, ma che ultimamente proprio l’aggravarsi della situazione ha costretto a tornare in Italia.
Le ragioni per cui sono stati rapiti ancora degli italiani paiono evidenti. Sono tra i pochi occidentali ancora a operare nel Paese in modo strutturato, anche se molto più defilati. L’Eni e le società italiane di sostegno come la Bonatti non hanno eguali per volume di lavoro e manodopera impiegata. Inoltre gli italiani pagano i riscatti. A differenza di americani e inglesi, che in genere rendono le cose molto più difficili. Il terzo motivo è ancora più importante: l’Italia ha un rapporto storico con la Libia, risale a prima dell’invasione del 1911. Non a caso a ogni crisi la sua popolazione guarda all’Italia. «Gli italiani non sono altro che libici che sanno nuotare», dicevano scherzosi i giovani rivoluzionari che scendevano in piazza a dimostrare contro Gheddafi nel febbraio del 2011. Guarda caso, in quello stesso periodo, anche i fedelissimi del Colonnello a Tripoli si rivolgevano con lo stesso fervore al governo Berlusconi affinché non intervenisse con la Nato. «Roma non ci può tradire come Londra e Parigi», gridavano.
Tutto questo per sostenere che il rapimento dei quattro italiani (come del resto i precedenti negli ultimi anni), pur se con una probabile matrice criminale prevalente, va inquadrato nel contesto politico locale. Diciamolo chiaramente: la Libia non c’è più. Il Paese è frazionato in una miriade di entità particolari in costante lotta tra loro per l’egemonia.
Per comodità noi giornalisti e commentatori riassumiamo che dall’anno scorso è diviso tra i «laici» che fanno capo al parlamento di Tobruk e gli islamici legati a Tripoli. Ma la realtà è molto più variegata, sfuggente, fuori controllo. E comunque ora non è strano che le due parti principali si rimpallino le responsabilità del sequestro.
Persino la televisione del Qatar, Al Jazeera, notoriamente legata al campo islamico, ieri ha fatto eco a queste polemiche riportando che gli italiani potrebbero essere nelle mani del «Jesh al Qabali», traducibile come «L’esercito delle Tribù», le milizie locali composte anche dai berberi delle montagne e i commercianti di Zuara, la città portuale prossima al terminale di Mellitah dove si stavano recando i quattro in arrivo dal confine tunisino. La ragione? Fare pressione sull’Italia in vista di un eventuale accordo per la formazione di un governo di unità nazionale mediato dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino León. E’ una tesi come tante altre. Ma forse più che spiegare complica la matassa.
L’Italia infatti ultimamente si è espressa più favorevolmente del solito per il governo di Tobruk, che a sua volta è molto vicino alla milizia berbera di Zintan. Il problema è che da almeno due anni Zuara e Zintan sono in contrasto. E con i loro vari gruppi armati l’Eni e le sue partecipate — come ha scritto in un reportage il Wall Street Journal — hanno stretto pragmaticamente singoli accordi per garantirsi l’integrità degli impianti e del personale. La logica è semplice: si pagano i capi tribali, come quelli delle tribù amazigh, che in cambio mandano i loro giovani a lavorare e fare la guardia. Il blocco degli impianti diventa un danno anche per loro. Non sarebbe strano che siano stati mobilitati i «signorotti» della regione per individuare i rapitori.
Su tutto ciò incombe lo spettro dell’Isis. Da oltre un anno i suoi tagliagole si sono progressivamente impadroniti di pezzi sempre più ampi del Paese. Hanno cominciato dal deserto, la Cirenaica e Derna (dove ultimamente sono stati scacciati da milizie filo Al Qaeda), quindi sono entrati a Sirte, controllano il 60 per cento di Bengasi e mirano alle periferie di Tripoli. Il rischio più grave è che cerchino di prendere gli italiani, potrebbero «comprarli» da chi li detiene. Anche per questo motivo occorre fare in fretta. Il caos aiuta il terrorismo e confonde le speranze per un governo di unità nazionale. I rapitori lo sanno e lo useranno come argomento per alzare il prezzo.
Le ragioni Gli italiani sono tra i pochi occidentali a operare ancora in Libia. E pagano i riscatti