Gli inglesi, i giacimenti di petrolio e gli affari con la Russia di Putin
Il governo è durissimo nel chiedere le sanzioni. Ma dà l’ok agli acquisti della Bp
Che siano gli esponenti politici tory, o gli autorevoli commentatori dei quality media britannici, non passa giorno senza che Roma venga additata come anello debole del fronte occidentale verso lo Zar del Cremlino.
Consideriamo qualche fatto. Al recente forum economico di San Pietroburgo, uno degli annunci più importanti è stata la firma del memorandum per realizzare due nuove bretelle del North Stream, il gasdotto che collega la Russia alla Germania passando sotto il Mar Baltico, tra il gigante russo Gazprom, la tedesca E.ON, l’austriaca OMV e l’anglo-olandese Shell. Una vera sorpresa dopo che ancora in gennaio il capo di Gazprom, Alexej Miller, aveva annunciato la rinuncia a nuove pipeline a causa delle tensioni politiche in Europa. Ma i veri protagonisti del Forum sono stati Rosneft, la più grande compagnia petrolifera russa, e la britannica BP, che ha acquistato il 20% dell’immenso giacimento di gas e petrolio di Taas-Yuryakh, in Siberia, pagandolo in cash 750 milioni di dollari. E’ il primo contratto di queste dimensioni tra investitori occidentali e un gruppo russo dall’inizio delle sanzioni. Per la cronaca, Bp possiede già una quota di minoranza del 20% della stessa Rosneft.
Dal punto di vista legale, l’accordo non viola il regime di embargo, che proibisce ad aziende come Rosneft di raccogliere capitale o acquistare know-how in Occidente, ma non pone loro ostacoli alla vendita o all’acquisto di attività. Ma è evidente che si tratta di una forma di finanziamento indiretto: 750 milioni di dollari sono infatti ossigeno puro per il gruppo petrolifero russo, il cui dominus è l’onnipotente Igor Sechin, uno dei maggiori alleati di Putin, egli stesso colpito da un divieto d’ingresso negli Usa.
Non basta. Le società si sono anche accordate a esplorare insieme due nuove aree nella Siberia Occidentale e nel bacino di Yenisey-Khatanga, per una superficie complessiva di 260 mila chilometri quadrati. Detto altrimenti, la tecnologia che le sanzioni impediscono a Rosneft di acquistare in Occidente la fornirà l’inglese Bp. «Continueremo a cercare attraenti opportunità di investimento per sviluppare le risorse sostanziali della Russia, mentre rispettiamo le sanzioni internazionali», ha detto il presidente di BP Russia, David Campbell.
Secondo Sergey Pikin, della Energy Development Foundation, Bp avrebbe ottenuto il permesso a firmare l’accordo dal governo britannico. Il quale non commenta le scelte strategiche delle compagnie private, ma si limita a osservare che si tratta di contratti conformi al regime sanzionatorio.
Non che Bp sia la sola a lavorare con Rosneft, negli spazi legali possibili. Lo fanno anche Eni, Shell, E.ON. Ma è da Londra, notano fonti europee, che ancora di recente si sono levati moniti severi contro un’eccessiva dipendenza energetica dalla Russia, mentre non sono mai stati risparmiati attacchi durissimi contro South Stream, che avrebbe portato il gas russo in Europa via Grecia e Italia e di cui Gazprom ha da poco cancellato il contratto con la nostra Saipem.
Un’altra chicca, maturata al Forum San Pietroburgo e concretizzatasi nelle settimane successive, è la vendita da parte di Rosneft di un altro 29% del giacimento di Taas-Yuryaki (che oltre a 134 milioni di tonnellate di petrolio contiene anche 155 mi-
Presidente Vladimir Putin al forum dei giovani russi «Terra Scientia» (Afp)
lioni di metri cubi di gas) a Skyland Petroleum, misteriosa società con sede alle Cayman Islands creata solo nel gennaio di quest’anno, guarda caso da un’altra compagnia britannica, Vazon Energy, di proprietà di David Robson, petroliere al centro di molti intrecci non sempre chiarissimi. Un portavoce di Rosneft ha precisato che la società conosce i beneficiari di Skyland.
Si potrebbe continuare, ricordando per esempio che mentre l’Italia applica alla lettera le sanzioni e non si ferma davanti al sequestro dei beni italiani di un magnate russo come Arkady Rotenberg, amicissimo di Putin, la City in nome della privacy e della sua speciale legislazione di fatto protegge le decine di oligarchi russi che hanno investito i loro patrimoni a Londra: «Cameron — ha dichiarato il laborista Ian Lucas, ministro ombra per la Sicurezza — dice una cosa e ne fa un’altra: se fosse coerente dovrebbe aggredire il capitale russo che prospera a Londra».
Ma anche se dalle sanzioni passiamo ad altro, esempi di doppi standard se ne possono trovare diversi. Parlando di Ucraina, per esempio, è proprio dal governo conservatore inglese che nelle scorse settimane sono venute le maggiori pressioni sui Paesi dell’area Schengen a liberalizzare i visti da Kiev. Attenzione però, nelle sollecitazioni fatte pervenire alle istituzioni comunitarie e alle rappresentanze diplomatiche dell’area Schengen, Londra si affretta subito a precisare che ovviamente un’eventuale liberalizzazione non si applicherebbe al Regno Unito, poiché (sic) non aderisce all’accordo di libera circolazione delle persone. Riassumendo, lo stesso governo che non ha accettato una sola persona nella ormai famosa redistribuzione dei 40 mila migranti attualmente in Italia e Grecia, bacchetta i Paesi Schengen perché non aprono le porte a eventuali profughi dall’Ucraina, precisando comunque che non facendo parte del gruppo esso non intende accoglierne. Senza commento.