«Io, prigioniero di miliziani e trafficanti» Quel patto segreto tra scafisti e autorità
TRIPOLI Pensava di avercela fatta nel settembre del 2013 l’allora diciannovenne Mohammed Baah a raggiungere finalmente il suo sogno: un posto sui barconi di migranti illegali verso l’Italia e il mercato del lavoro europeo. «Avevo impiegato quasi un anno da casa mia nel Gambia per giungere sulla costa libica vicino a Tripoli. Qui c’erano amici sicuri, conoscevano il mercato degli scafisti locali, potevo procurarmi i mille euro necessari per la traversata in mare. Credevo di essere davvero a posto!», ricordava ieri pomeriggio raccontando la sua storia in una breve pausa dal lavoro di facchino al mercato ortofrutticolo di Hailislam, nei quartieri occidentali della capitale libica. «Ma era solo un’illusione, una beffa crudele. Circa tre mesi dopo il mio arrivo, una notte mi sono imbarcato con un altro centinaio di africani. Tutto è andato bene le prime cinque o sei ore. Però ad un certo punto sono apparse le motovedette della guardia costiera libica. Ci hanno fermato in mare e riportati tutti indietro», aggiunge.
È allora che inizia il calvario suo e dei suoi compagni di viaggio. I supposti militari libici si rivelano anche peggiori degli scafisti, gli «muharrebin», come qui sono chiamati i responsabili delle barche della speranza. Prendono tutti gli oggetti di valore, sequestrano le sim e le batterie dei cellulari. Mohammed e gli altri sventurati come lui vengono chiusi in un centro di detenzione. Sbarre a porte e finestre, cibo cattivo, caldo torrido d’estate, umido l’inverno. Lavori inutili, tipo scavare con vanga e piccone profonde buche da riempire di macerie, pagati somme ridicole. Imperano arbitrarietà, corruzione e spesso soltanto il caso. Il fine non è prevenire le partenze, tutt’altro, semplicemente stillare nuovo denaro. I miliziani offrono di liberare chiunque abbia amici o famigliari disposti a pagare somme comprese tra 200 e 400 euro a testa. Chi riesce a procurarsele può tornare libero e riprendere a lavorare per raggranellare di nuovo il piccolo gruzzolo che permette di ritentare il viaggio verso l’Italia. Coloro che invece non ce la fanno devono attendere in cella. Cosa? Non è chiaro. Nei centri di detenzione s’incontrano personaggi chiusi da dieci mesi e altri arrivati da una settimana già in procinto di uscire. In quello di Abu Selim, nei quartieri meridionali della capitale, ieri abbiamo incontrato il 39enne Ben Ewure, un ingegnere nigeriano, che in perfetto inglese sosteneva di essere stato arrestato sei settimane fa perché ricacciato in Libia dai doganieri turchi atterrando a Istanbul. «Non conosco il motivo della mia presenza qui. Da 13 anni lavoro con due società straniere che operano in Libia. Ho visto la caduta di Gheddafi, sono rimasto. Adesso però mi hanno preso il passaporto.
Il racconto «Eravamo in 180 su due grandi gommoni: eritrei, sudanesi, nigeriani, ghanesi, giovani del Mali. Sembrava finalmente la volta buona. Poi sono arrivati i libici»
Ho moglie e cinque figli che non riesco a contattare in Niger. Chi mi può aiutare?», quasi piangeva. Alcuni ragazzi del Burkina Faso giocano a carte sui materassi stesi a terra. Non vogliono parlare, lanciano occhiate cariche di paura verso i miliziani. Ogni volta che uno di loro si avvicina, gli africani ripetono quasi meccanicamente: «Noi andare in Italia? Non ci pensiamo neppure. In Libia stiamo bene». Inutile insistere. Certo non in presenza delle guardie.
Raccontano invece senza problemi quelli incontrati sui luoghi di lavoro fuori dai centri di detenzione. I loro sguardi si accendono non appena sentono parlare di «muharrebin» e «Italia». Sanno che l’unica via per risolvere il loro status di paria passa per il contante in euro o dollari. «Io ho pagato. Ma ben presto ho capito che scafisti e uomini delle milizie legate al governo locale di Tripoli sono profondamente collusi. Si sono messi assieme per sfruttare sino all’osso noi migranti neri che arriviamo da sud del Sahara. Ognuno ha la sua fetta di bottino. E siamo prigionieri, non possiamo fare assolutamente nulla», spiega ancora Mohammed. Lui per ben quattro volte ha provato a reimbarcarsi. «L’ultima è stata la notte dello scorso 11 aprile. Eravamo in 180 su due grandi gommoni: eritrei, sudanesi, nigeriani, ghanesi, giovani del Mali. Sembrava che fosse finalmente la volta buona. Siamo partiti all’una di notte, il mare calmo, la luna chiara e netta in cielo. Verso le 10 di mattina col satellitare abbiamo raggiunto le corvette italiane. Ci hanno comunicato che se avessimo viaggiato per un’altra mezzoretta ci avrebbero presi a bordo. Per noi sarebbe stata la salvezza. Ma dieci minuti dopo ecco apparire la maledetta marina libica. Due battelli veloci. Noi abbiamo provato a deviare. Loro si sono messi in mezzo, con le eliche hanno tentato di farci rovesciare. Due soldati hanno anche sparato con i mitra nel mare a pochi metri da noi. Cinque del Ghana sono
Le cifre Tra i disperati che affollano i centri di detenzione sulla costa libica. Chi può pagare 200-400 euro torna libero e ricomincia a cercare denaro per tentare un nuovo viaggio
caduti in acqua. Tre li abbiamo salvati. Gli altri due sono annegati».
La sua è solo una delle tante storie per lo più sconosciute, ignote, consumate nelle celle povere e puzzolenti dei centri di detenzione sulla costa libica, nei cantieri dove si fanno i lavori più umili per tre euro l’ora, dove l’assistenza medica è praticamente sconosciuta, oppure tra le mura impenetrabili delle caserme delle milizie, sulle spiagge, nel mare che alla fine tutto nasconde e sommerge. Per raccoglierle è però sufficiente cercarle tra i cascami di questa umanità disperata. Raccontano di ingiustizie medievali, del razzismo arabo locale che considera i neri specie di sub-umani una volta legati a filo doppio alla dittatura di Gheddafi e oggi da sfruttare sino all’osso. Se chiedi a responsabili e uomini armati delle milizie la risposta inevitabile è che loro fanno del loro meglio per bloccare i traffici degli scafisti, «come chiedete voi europei». Ma la realtà è allo stesso tempo più variegata e molto più semplice. Il traffico dei disperati che cercano di raggiungere l’Europa è troppo lucroso per non cercare di approfittarne. Conferma per telefono da Zuwhara (l’area dove lunedì scorso sono stati rapiti i quattro italiani) Mohammad Muktar, uno scafista che a 28 anni è già noto anche a Tripoli: «Noi disponiamo di capitali in contanti. Siamo tra i pochi ormai in Libia. A notte possiamo guadagnare oltre 300 mila euro. Non chiediamo l’aiuto delle milizie o del governo di Tripoli. Possiamo pagare bene all’occorrenza per garantire che le nostre barche passino indisturbate».