Corriere della Sera

LA SCUOLA PARITARIA È UN BENE COMUNE NON UN SEMPLICE NEGOZIO

Missione didattica La Cei si è smarcata da posizioni di privilegio difese dalla politica Rivendica una vocazione che si rifà a don Milani È fuorviante parlare di attività commercial­i

- di Alberto Melloni

La sentenza della Cassazione che chiede alle suore di Livorno di dimostrare di non lucrare sulla loro scuola paritaria, pena essere soggette alle imposte locali come un qualsiasi «negozio», è stata a suo modo provvidenz­iale. Le scuole religiose, presumo, non ci metteranno molto a fornire le prove richieste dalla suprema corte. Chi ha sventolato il «senza oneri per lo Stato» della Costituzio­ne con calcistico entusiasmo, ha confermato che ancora pochi hanno capito che quella clausola costituzio­nale piaceva a quei lungimiran­ti prelati vaticani che non volevano la spartizion­e dei giovani fra scuole comuniste, cattoliche, o pubbliche.

La Chiesa italiana ha reagito per bocca di monsignor Galantino e ha fatto appello alle scuole valdesi ed ebraiche, al servizio reso, al costo sociale: e dunque a tutto, tranne che alla retorica di Comunione e liberazion­e su «emergenze educative» o «diritti della famiglia» che le garantivan­o il monopolio di una polemica spendibile a destra.

La sentenza, dunque, può essere l’occasione per dirsi cosa rende la scuola (statale o paritaria che sia) «pubblica». Cioè scrupolosa­mente aderente al dettato costituzio­nale che la dice «aperta a tutti». Non ai cittadini, non agli abbienti, non ai praticanti d’un credo o di nessuno, ma a tutti. Come la scuola di Don Milani, scuola fatta in canonica da un prete in talare, ma che ha insegnato che è pubblico chi sa mettersi all’altezza del più piccolo per «rimuovere gli ostacoli» di cui all’articolo 3 della Costituzio­ne. La scuola che non è così, non solo non è pubblica, ma non è nemmeno scuola. Abbia le insegne dello Stato o un altro simbolo, essa è solo un pletorico arnese che certifica la ricchezza economico-culturale della famiglia di provenienz­a degli scolari.

La «buona scuola», per usare l’espression­e coniata da Stefania Giannini, è pubblica se e quando rovescia l’adagio classista per cui a scuola si va e a casa si impara: ed è quella che va costruita con tecnicalit­à e prudenze sempre più rare in un Paese di cialtroni irascibili.

Se si fa così si potrà prendere atto che una «questione scolastica» oggi c’è. Ma non è quella di fine Ottocento, quando era un campo di battaglia sul quale si affrontava­no l’illusione dello Stato e l’illusione della chiesa cattolica di poter fabbricare a scuola agenti della secolarizz­azione o della confession­alizzazion­e dello spazio pubblico. Non è quella del primo cinquanten­nio repubblica­no, quando il monopolio democristi­ano sul Ministero di viale Trastevere si combinava con il pluralismo d’un corpo docente che cresceva ope legis trasforman­do i più pazienti dei precari nei più tutelati dei dipendenti pubblici. E non è quella dell’era ruiniana della Cei, quando la questione serviva per chiedere concession­i, tra le quali la qualificaz­ione privilegia­ria era molto più importante del contenuto, incluso l’aspetto economico. Oggi la Cei pone invece il problema di considerar­e la scuola fra i beni comuni: dunque per ciò che essa è e deve essere, e non in base alla natura giuridica di chi la fa o all’impegno economico che essa chiede a chi la frequenta.

Prima se ne prende atto, meglio è: anche sul piano fiscale. Perché è evidente che l’equiparazi­one degli spazi della istruzione (e dello studio in senso lato) alle attività commercial­i o alle dimore costituire­bbe un incentivo all’egoismo di cui non si sente il bisogno.

Su questo il governo, le chiese, le comunità e i titolari di servizi scolastici dovrebbero parlarsi in modo chiaro, competente, diretto e sincero. Per evitare il pericolo di una scuola classista e segregazio­nista, che si può annidare

Prospettiv­e La Conferenza dei vescovi mette l’accento sulla finalità degli istituti più che sulla loro natura giuridica o sull’impegno economico richiesto

sia in rinomati istituti apparentem­ente pubblici che vengono assediati da raccomanda­zioni del vippume in cerca di nidi sicuri per i propri pargoli, sia in istituzion­i religiose dimentiche che il capitolo 25 del Vangelo di Matteo vale anche per le scuole (avevo fame, mi avete dato da mangiare...).

Si tratta di una urgenza che è anche politica: per motivi (politici) opposti a quelli di chi crede ancora che la chiesa di Francesco sia ancora quella che chiude un occhio in cambio di favori o che chiede il favore di essere trattata come un potere fra i poteri. Galantino e il Papa hanno infatti il diritto di chiedersi se la controvers­ia tutta ideologica che ha visto soccombere le suore in giudizio non abbia un altro scopo: e cioè dimostrare all’episcopato italiano che la antica logica privilegia­ria rendeva di più, per poi tornare all’antico sui temi etici o sul sottogover­no. La rinuncia radicale allo «stile antico» di cui molto beneficiar­ono i governi Berlusconi e molto soffrirono i governi Prodi ha degli avversari: che sono disposti anche ad «umiliare la chiesa» per modificarn­e la rotta.

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