LA SCUOLA PARITARIA È UN BENE COMUNE NON UN SEMPLICE NEGOZIO
Missione didattica La Cei si è smarcata da posizioni di privilegio difese dalla politica Rivendica una vocazione che si rifà a don Milani È fuorviante parlare di attività commerciali
La sentenza della Cassazione che chiede alle suore di Livorno di dimostrare di non lucrare sulla loro scuola paritaria, pena essere soggette alle imposte locali come un qualsiasi «negozio», è stata a suo modo provvidenziale. Le scuole religiose, presumo, non ci metteranno molto a fornire le prove richieste dalla suprema corte. Chi ha sventolato il «senza oneri per lo Stato» della Costituzione con calcistico entusiasmo, ha confermato che ancora pochi hanno capito che quella clausola costituzionale piaceva a quei lungimiranti prelati vaticani che non volevano la spartizione dei giovani fra scuole comuniste, cattoliche, o pubbliche.
La Chiesa italiana ha reagito per bocca di monsignor Galantino e ha fatto appello alle scuole valdesi ed ebraiche, al servizio reso, al costo sociale: e dunque a tutto, tranne che alla retorica di Comunione e liberazione su «emergenze educative» o «diritti della famiglia» che le garantivano il monopolio di una polemica spendibile a destra.
La sentenza, dunque, può essere l’occasione per dirsi cosa rende la scuola (statale o paritaria che sia) «pubblica». Cioè scrupolosamente aderente al dettato costituzionale che la dice «aperta a tutti». Non ai cittadini, non agli abbienti, non ai praticanti d’un credo o di nessuno, ma a tutti. Come la scuola di Don Milani, scuola fatta in canonica da un prete in talare, ma che ha insegnato che è pubblico chi sa mettersi all’altezza del più piccolo per «rimuovere gli ostacoli» di cui all’articolo 3 della Costituzione. La scuola che non è così, non solo non è pubblica, ma non è nemmeno scuola. Abbia le insegne dello Stato o un altro simbolo, essa è solo un pletorico arnese che certifica la ricchezza economico-culturale della famiglia di provenienza degli scolari.
La «buona scuola», per usare l’espressione coniata da Stefania Giannini, è pubblica se e quando rovescia l’adagio classista per cui a scuola si va e a casa si impara: ed è quella che va costruita con tecnicalità e prudenze sempre più rare in un Paese di cialtroni irascibili.
Se si fa così si potrà prendere atto che una «questione scolastica» oggi c’è. Ma non è quella di fine Ottocento, quando era un campo di battaglia sul quale si affrontavano l’illusione dello Stato e l’illusione della chiesa cattolica di poter fabbricare a scuola agenti della secolarizzazione o della confessionalizzazione dello spazio pubblico. Non è quella del primo cinquantennio repubblicano, quando il monopolio democristiano sul Ministero di viale Trastevere si combinava con il pluralismo d’un corpo docente che cresceva ope legis trasformando i più pazienti dei precari nei più tutelati dei dipendenti pubblici. E non è quella dell’era ruiniana della Cei, quando la questione serviva per chiedere concessioni, tra le quali la qualificazione privilegiaria era molto più importante del contenuto, incluso l’aspetto economico. Oggi la Cei pone invece il problema di considerare la scuola fra i beni comuni: dunque per ciò che essa è e deve essere, e non in base alla natura giuridica di chi la fa o all’impegno economico che essa chiede a chi la frequenta.
Prima se ne prende atto, meglio è: anche sul piano fiscale. Perché è evidente che l’equiparazione degli spazi della istruzione (e dello studio in senso lato) alle attività commerciali o alle dimore costituirebbe un incentivo all’egoismo di cui non si sente il bisogno.
Su questo il governo, le chiese, le comunità e i titolari di servizi scolastici dovrebbero parlarsi in modo chiaro, competente, diretto e sincero. Per evitare il pericolo di una scuola classista e segregazionista, che si può annidare
Prospettive La Conferenza dei vescovi mette l’accento sulla finalità degli istituti più che sulla loro natura giuridica o sull’impegno economico richiesto
sia in rinomati istituti apparentemente pubblici che vengono assediati da raccomandazioni del vippume in cerca di nidi sicuri per i propri pargoli, sia in istituzioni religiose dimentiche che il capitolo 25 del Vangelo di Matteo vale anche per le scuole (avevo fame, mi avete dato da mangiare...).
Si tratta di una urgenza che è anche politica: per motivi (politici) opposti a quelli di chi crede ancora che la chiesa di Francesco sia ancora quella che chiude un occhio in cambio di favori o che chiede il favore di essere trattata come un potere fra i poteri. Galantino e il Papa hanno infatti il diritto di chiedersi se la controversia tutta ideologica che ha visto soccombere le suore in giudizio non abbia un altro scopo: e cioè dimostrare all’episcopato italiano che la antica logica privilegiaria rendeva di più, per poi tornare all’antico sui temi etici o sul sottogoverno. La rinuncia radicale allo «stile antico» di cui molto beneficiarono i governi Berlusconi e molto soffrirono i governi Prodi ha degli avversari: che sono disposti anche ad «umiliare la chiesa» per modificarne la rotta.