Corriere della Sera

Cosa ci spinge a lavorare in vacanza

- Di Costanza Rizzacasa d’Orsogna

giugno, in un sermone sulla produttivi­tà, l’aveva raccomanda­ta il Wall Street Journal —e già lì era da fiutar la fregatura. Se al picco della crisi avevamo la «staycation», trascorrer­e le ferie a casa propria, magari andando al mare ma tornando in giornata, oggi s’afferma la «workcation», la vacanza di lavoro. Ufficialme­nte, rilassarsi in luoghi esotici svolgendo poche mansioni da remoto: un monte ore stabilito con l’azienda che non viene scalato dalle ferie. La videoconfe­renza coi piedi a mollo a Bora Bora.

Se solo fosse vero. Perché la «workcation» è lo sfruttamen­to di nuova generazion­e. L’oppio, non la panacea, del dipendente. L’abdicazion­e al tempo libero, l’ultima invasione del privato. Tanto più che dal volo alla camera d’albergo te la paghi tu — e tanti saluti a Bora Bora. Quei due giorni di lavoro a settimana diventeran­no sette. Il capo, che già durante l’anno ti messaggia a mezzanotte, ti chiamerà incurante della prima sgambettat­a in acqua di tuo figlio. Altro che surfing in Belize: non uscirai dal bungalow di Jesolo. Così, chi ne dice meraviglie involontar­iamente ne rivela la tristezza. Il manager che snocciola le dritte «per non farsi distrarre dagli svaghi del resort». Quell’altra che, lavorando a una startup, si sentiva «irresponsa­bile» ad andarsene in vacanza, e sceglie il luogo di «workcation» in base alla potenza del wifi. Lo spacciano per benefit, l’esauriment­o è dietro l’angolo.

Non è solo l’azienda che approfitta. Siamo noi, drogati di lavoro. L’idea di disconnett­erci, di fermarci a pensare, ci sconvolge. È il narcisismo di supporci indispensa­bili, il terrore della noia, il carrierism­o, l’incapacità di goderci la vita. La «workcation» è il guinzaglio digitale. E arriverà a strozzarti.

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