Cosa ci spinge a lavorare in vacanza
giugno, in un sermone sulla produttività, l’aveva raccomandata il Wall Street Journal —e già lì era da fiutar la fregatura. Se al picco della crisi avevamo la «staycation», trascorrere le ferie a casa propria, magari andando al mare ma tornando in giornata, oggi s’afferma la «workcation», la vacanza di lavoro. Ufficialmente, rilassarsi in luoghi esotici svolgendo poche mansioni da remoto: un monte ore stabilito con l’azienda che non viene scalato dalle ferie. La videoconferenza coi piedi a mollo a Bora Bora.
Se solo fosse vero. Perché la «workcation» è lo sfruttamento di nuova generazione. L’oppio, non la panacea, del dipendente. L’abdicazione al tempo libero, l’ultima invasione del privato. Tanto più che dal volo alla camera d’albergo te la paghi tu — e tanti saluti a Bora Bora. Quei due giorni di lavoro a settimana diventeranno sette. Il capo, che già durante l’anno ti messaggia a mezzanotte, ti chiamerà incurante della prima sgambettata in acqua di tuo figlio. Altro che surfing in Belize: non uscirai dal bungalow di Jesolo. Così, chi ne dice meraviglie involontariamente ne rivela la tristezza. Il manager che snocciola le dritte «per non farsi distrarre dagli svaghi del resort». Quell’altra che, lavorando a una startup, si sentiva «irresponsabile» ad andarsene in vacanza, e sceglie il luogo di «workcation» in base alla potenza del wifi. Lo spacciano per benefit, l’esaurimento è dietro l’angolo.
Non è solo l’azienda che approfitta. Siamo noi, drogati di lavoro. L’idea di disconnetterci, di fermarci a pensare, ci sconvolge. È il narcisismo di supporci indispensabili, il terrore della noia, il carrierismo, l’incapacità di goderci la vita. La «workcation» è il guinzaglio digitale. E arriverà a strozzarti.