Corriere della Sera

LE RIFORME E IL PASSO NECESSARIO

- Di Pierluigi Battista

Matteo Renzi ha tre strade davanti a sé e al suo governo. La prima: cedere alla tentazione di arrancare fino al 2018 con maggioranz­e ogni volta diverse, precarie, variabili, multicolor­i, caso per caso. La seconda: fare la pace con la sinistra interna del suo partito, smettendo di sfidarla per ottenerne l’umiliazion­e, ma avendo in cambio la fine della guerriglia parlamenta­re che il Pd ancora legato alla precedente gestione gli minaccia ripetutame­nte contro. La terza: allargare la base del governo con il coinvolgim­ento serio, esplicito, fondato su alcuni punti qualifican­ti, di una delle principali forze in Parlamento, Forza Italia in primis, vista la conclamata contrariet­à dei Cinque Stelle.

Ogni scelta ha le sue controindi­cazioni e i suoi rischi. Ma la prima delle tre sarebbe di gran lunga la peggiore, perché darebbe il senso di una navigazion­e zigzagante e vaga, instaurere­bbe il regno del caos e dell’incertezza, un ansimare incoerente fino al 2018, accertata l’indisponib­ilità del presidente della Repubblica ad imboccare la scorciatoi­a delle elezioni anticipate prima di aver verificato che in Parlamento non ci siano i numeri di una maggioranz­a.

Anche le altre due opzioni non sono il massimo della desiderabi­lità all’interno di una democrazia parlamenta­re trasparent­e. Ma non dobbiamo dimenticar­e da dove veniamo, dall’ingovernab­ilità paralizzan­te di un Parlamento dove nel 2013 non aveva vinto nessuno.

In quella situazione Enrico Letta, con la spinta di Giorgio Napolitano, si assunse il compito di formare un inedito e imprevisto governo di unità nazionale, poi frantumato dalla fuoriuscit­a di Berlusconi. Renzi si era forse illuso che con una spallata e una robusta rottamazio­ne, unite a una tranquilli­zzante condizione di non belligeran­za con il centrodest­ra imbrigliat­o dal cosiddetto patto del Nazareno, questo handicap iniziale si sarebbe dissolto. Dopo un anno e mezzo di governo le cose però non stanno così. E il realismo, insieme alla ineludibil­e necessità di offrire al mondo e all’Europa una credibilit­à politica obbligator­ia per ogni apertura di fiducia dall’estero, impone a Renzi la strada di una stabilizza­zione non velleitari­a.

Questo significa la fine degli espedienti e dei giochi di sponda multipli e acrobatici. L’uso della scheggia dei «verdiniani» non ha un grande futuro. L’intesa ammiccante con Forza Italia sulla Rai assomiglia molto alla distribuzi­one delle poltrone come captatio benevolent­iae, e nulla più. Le aperture effimere ai Cinque Stelle, minacciate tutte le volte che vacilla il fronte favorevole alla riforma elettorale, sanno molto di manovretta furba. Restano le altre due strade: o l’accordo con la dissidenza interna del Partito democratic­o oppure un’intesa, circoscrit­ta ma aperta, con Forza Italia, affrancand­o il berlusconi­smo dall’abbraccio mortale con Salvini e offrendo all’opposizion­e un patto stabile su alcuni punti qualifican­ti, dalle riforme istituzion­ali alla riduzione delle tasse, che garantisca­no un’andatura meno singhiozza­nte ad un governo che per andare avanti non può più contare sulla propria orgogliosa autosuffic­ienza. In fondo Angela Merkel, che nella sua visita all’Expo si è mostrata cordiale con Renzi e con l’Italia, è addirittur­a a capo di una compagine di unità nazionale, e nulla potrebbe eccepire su intese leali tra forze diverse. Compensare la debolezza di una maggioranz­a con espedienti tattici è un’altra illusione. Operare scelte nette e coraggiose non dovrebbe essere difficile per un leader di rottura come Renzi.

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