LE RIFORME E IL PASSO NECESSARIO
Matteo Renzi ha tre strade davanti a sé e al suo governo. La prima: cedere alla tentazione di arrancare fino al 2018 con maggioranze ogni volta diverse, precarie, variabili, multicolori, caso per caso. La seconda: fare la pace con la sinistra interna del suo partito, smettendo di sfidarla per ottenerne l’umiliazione, ma avendo in cambio la fine della guerriglia parlamentare che il Pd ancora legato alla precedente gestione gli minaccia ripetutamente contro. La terza: allargare la base del governo con il coinvolgimento serio, esplicito, fondato su alcuni punti qualificanti, di una delle principali forze in Parlamento, Forza Italia in primis, vista la conclamata contrarietà dei Cinque Stelle.
Ogni scelta ha le sue controindicazioni e i suoi rischi. Ma la prima delle tre sarebbe di gran lunga la peggiore, perché darebbe il senso di una navigazione zigzagante e vaga, instaurerebbe il regno del caos e dell’incertezza, un ansimare incoerente fino al 2018, accertata l’indisponibilità del presidente della Repubblica ad imboccare la scorciatoia delle elezioni anticipate prima di aver verificato che in Parlamento non ci siano i numeri di una maggioranza.
Anche le altre due opzioni non sono il massimo della desiderabilità all’interno di una democrazia parlamentare trasparente. Ma non dobbiamo dimenticare da dove veniamo, dall’ingovernabilità paralizzante di un Parlamento dove nel 2013 non aveva vinto nessuno.
In quella situazione Enrico Letta, con la spinta di Giorgio Napolitano, si assunse il compito di formare un inedito e imprevisto governo di unità nazionale, poi frantumato dalla fuoriuscita di Berlusconi. Renzi si era forse illuso che con una spallata e una robusta rottamazione, unite a una tranquillizzante condizione di non belligeranza con il centrodestra imbrigliato dal cosiddetto patto del Nazareno, questo handicap iniziale si sarebbe dissolto. Dopo un anno e mezzo di governo le cose però non stanno così. E il realismo, insieme alla ineludibile necessità di offrire al mondo e all’Europa una credibilità politica obbligatoria per ogni apertura di fiducia dall’estero, impone a Renzi la strada di una stabilizzazione non velleitaria.
Questo significa la fine degli espedienti e dei giochi di sponda multipli e acrobatici. L’uso della scheggia dei «verdiniani» non ha un grande futuro. L’intesa ammiccante con Forza Italia sulla Rai assomiglia molto alla distribuzione delle poltrone come captatio benevolentiae, e nulla più. Le aperture effimere ai Cinque Stelle, minacciate tutte le volte che vacilla il fronte favorevole alla riforma elettorale, sanno molto di manovretta furba. Restano le altre due strade: o l’accordo con la dissidenza interna del Partito democratico oppure un’intesa, circoscritta ma aperta, con Forza Italia, affrancando il berlusconismo dall’abbraccio mortale con Salvini e offrendo all’opposizione un patto stabile su alcuni punti qualificanti, dalle riforme istituzionali alla riduzione delle tasse, che garantiscano un’andatura meno singhiozzante ad un governo che per andare avanti non può più contare sulla propria orgogliosa autosufficienza. In fondo Angela Merkel, che nella sua visita all’Expo si è mostrata cordiale con Renzi e con l’Italia, è addirittura a capo di una compagine di unità nazionale, e nulla potrebbe eccepire su intese leali tra forze diverse. Compensare la debolezza di una maggioranza con espedienti tattici è un’altra illusione. Operare scelte nette e coraggiose non dovrebbe essere difficile per un leader di rottura come Renzi.