Corriere della Sera

L’ansia del capo dello Stato per l’escalation in Libia e la spinta sulla diplomazia

- di Marzio Breda

Sergio Mattarella, si sa, è un uomo che fa un’estrema economia di parole e quelle che pronuncia sono pensate, e pesate. Così, ha provocato impression­e, ieri, sentirlo evocare il fantasma di un nuovo conflitto planetario, nel messaggio che ha inviato al Meeting di Rimini «per l’amicizia tra i popoli».

Il cenno, rilanciato dalla rete un po’ troppo sbrigativa­mente e in qualche caso senza sfumature, alludeva a un rischio da tempo denunciato pure da papa Francesco (secondo il quale è già in corso una «guerra a pezzi»): il terrorismo di matrice islamista, che lievita anche su «fanatiche distorsion­i della fede in Dio, sta cercando di introdurre nel Mediterran­eo, in Medio Oriente, in Africa i germi di una terza guerra mondiale. Sta alla nostra responsabi­lità fermarla».

Ecco il testuale. Una diagnosi drammatica e, sì, drammatizz­ata, rispetto ad altre precedenti riflession­i affiorate dal Quirinale quando si è trattato di spiegare la posizione dell’Italia sui dossier aperti in certe aree di crisi.

Un allarme che, per come stavolta è formulato, rispecchia una preoccupaz­ione crescente e sempre più grave, confermata dalle infinite mostruosit­à dell’Isis (ultima l’assassinio dell’archeologo-tutore di Palmira, che ha impression­ato moltissimo il capo dello Stato). Quella preoccupaz­ione che il presidente della Repubblica ha maturato attraverso frequenti contatti internazio­nali e con la nostra rete diplomatic­a, oltre che grazie all’analisi di alcune minacciose «ricadute interne» statistica­mente misurabili presso le varie opinioni pubbliche europee.

Chiaro che, per uno con la sua formazione da cattolico pacifista, il richiamo alla «responsabi­lità», per imporre uno stop a questa pericolosa deriva, non va confuso con la tentazione di ricorrere all’uso della forza di cui ormai cresce la tentazione in parecchi Paesi. Mattarella, semmai, propone a tutti, e all’Italia e alla Ue in primo luogo, di « prosciugar­e l’odio, far crescere la cooperazio­ne e la fiducia, mostrare i vantaggi della pace». Una strategia che dovrebbe partire da un rilancio del «dialogo tra le religioni monoteiste». Da sviluppare «già all’interno delle nostre società, divenute plurali e multietnic­he». E da corroborar­e con un approccio nutrito di «umanità e intelligen­za», nell’accogliere le ondate di profughi che approdano ogni giorno alle nostre coste. Mostrando in questo modo al mondo «la qualità della vita democratic­a».

Non è la solita ricetta buonista. Per lui, infatti, solo così potremo dimostrare che «la democrazia si esporta con la cultura e con l’esempio». Oltre che con un accorto uso della diplomazia, naturalmen­te. Altro che coltivare la tentazione di un «intervento a terra» tra Tobruk e Tripoli, oggi ancora nel caos, dove si gioca la partita decisiva. Il presidente ne ha parlato anche alla conferenza dei nostri ambasciato­ri, svoltasi a fine luglio, sposando la strategia del negoziator­e messo in campo dal Palazzo di Vetro, Bernardino Leon. «La stabilizza­zione della Libia è un tassello prioritari­o anche per evitare il possibile radicarsi di gruppi terroristi­ci sul suo territorio». Basta pensarci un attimo, tenendo l’atlante in mano: dall’Iraq alla Siria, dallo Yemen al Corno d’Africa all’area sub-sahariana, se anche la Libia capitolass­e alla logica dello scontro tra civiltà, allora saremmo davvero alla terza guerra mondiale.

Lo scenario Il Colle preme per la stabilizza­zione e non considera l’ipotesi di un intervento di terra La situazione La preoccupaz­ione maturata anche attraverso i contatti internazio­nali

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