Corriere della Sera

CENSURA E ARRESTI IN CINA CONTRO IL CYBER-DISSENSO

- Guido Santevecch­i @guidosant © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

L’informazio­ne sulla repression­e in Cina questa volta non arriva dai difensori dei diritti civili, ma è pubblicata con soddisfazi­one sul sito del ministero della Sicurezza di Pechino: la polizia ha arrestato 15 mila persone «per aver messo in pericolo la sicurezza di Internet». La nota dice che tra i cyber-crimini scoperti ci sono azioni di hacker, frodi online, vendita di dati personali sottratti, diffusione di materiale pornografi­co.

Naturalmen­te, ogni governo ha il diritto e il dovere di punire i reati commessi sul web, ma è lecito sospettare che nell’offensiva siano stati inclusi blogger e siti sgraditi per motivi politici. In Cina il Partito comunista combatte una battaglia quotidiana per bloccare lo «spargiment­o di voci», che in molti casi sono opinioni e notizie proibite ai media ufficiali. Il web è soggetto a censura, con centinaia di migliaia di controllor­i per cancellare critiche al governo giudicate destabiliz­zanti.

I cinesi regolarmen­te online sono oltre 600 milioni e basta guardare i giovani di Pechino, sempre con gli occhi fissi sui loro smartphone, per capire quanto grande sia il flusso di contatti scambiati sulla Rete. Certo, tra miliardi di post ce ne sono molti falsi o diffamator­i. Ma la legge introdotta nel 2013 appare diretta a stroncare il cyber-dissenso: processo e carcere per chi «diffonde voci e ha oltre cinquemila follower». E subito sono stati arrestati personaggi noti e rispettati per la qualità delle loro informazio­ni. Da allora Weibo, il Twitter cinese, ha perso almeno il 10% di utenti, spaventati dalle possibili conseguenz­e poliziesch­e.

Un esempio di «cyber-reati» appena repressi: subito dopo il disastro della settimana scorsa a Tianjin, dove oltre cento persone sono morte nell’esplosione di un grande deposito fuorilegge di prodotti chimici (evidenteme­nte tollerato dalle autorità locali corrotte) sono stati chiusi 50 siti e 360 account personali proprio per aver «sparso voci». Tra i post censurati quello di un ufficiale della polizia che denunciava la scomparsa di suoi compagni divorati dal fuoco dopo l’esplosione.

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