Viaggio nella Parigi libertina a caccia dell’ «Encyclopédie»
Pérez-Reverte narra le avventure di due accademici spagnoli del Settecento
Il nonno e il padre erano marinai; anche lui è un navigatore, spesso solitario; è cresciuto nel porto di una città di mare, Cartagena; i libri sul mare riempivano la biblioteca della casa di famiglia. E nei suoi romanzi e nei suoi racconti il vento del mare soffia sempre. Anche in questo Due uomini buoni (Rizzoli), che tra qualche giorno approderà in Italia. È un «vento largo», che non soffia mai nella stessa direzione, che ti sorprende: a volte il racconto si fa pignolo e di quella lentezza bella che ti fa entrare dentro le cose, le persone e le idee, a volte diventa una raffica furiosa che non ti dà respiro.
Arturo Pérez-Reverte racconta la storia di due «uomini buoni»: il brigadiere in pensione della Marina Reale don Pedro Zárate, a cui tutti si rivolgono chiamandolo ammiraglio, specialista in terminologia navale, autore di un fondamentale dizionario sull’argomento, e il bibliotecario don Hermógenes, latinista insigne e traduttore di Virgilio e Tacito. Tutti e due sono membri della « Real Academia Española», la prestigiosa istituzione chiamata a tutelare la purezza, la perfezione, la bellezza della lingua castigliana senza tralasciare i necessari aggiornamenti per stare al passo con i tempi che cambiano. All’Academia si fa cultura: si discutono e si diffondono letteratura, filosofia, scienza. Ed è un momento in cui i tempi stanno per cambiare davvero. Siamo verso la fine del Settecento, tra una decina d’anni arriverà il vento, la tempesta della Rivoluzione francese.
Nella Spagna oscurantista arriva soltanto in ambienti intellettualmente all’avanguardia, come l’Academia, un pallido riflesso dei Lumi che brillano in Francia. (Dell’Academia oggi, da dodici anni, fa parte Pérez-Reverte, occupa lo scranno corrispondente alla lettera T). Nella biblioteca, in fondo, ci sono ventotto volumi in corpo grande, rilegati in pelle color castano chiaro scolorita dal tempo, maltrattata da due secoli e mezzo di uso. Sulla costa c’è scritto: Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné. Pérez-Reverte la descrive: «Si tratta della prima edizione. Quella che iniziò a uscire dalla tipografia nel 1751 e il cui ultimo volume vide la luce nel 1772... l’opera che compendiava la più grande avventura intellettuale del XVIII secolo: il trionfo della ragione e del progresso sulle forze oscure del mondo allora conosciuto. Un’esposizione sistematica in 72.000 articoli, 16.500 pagine e 17 milioni di parole che conteneva le idee più rivoluzionarie del suo tempo, che fu condannata dalla Chiesa cattolica e i cui autori e editori si videro minacciati con la prigione e con la morte... un’opera che
L’autore Arturo Pérez-Reverte (1951, foto Carmelo Rubio). Il romanziere interverrà al Festival della Mente di Sarzana sabato 5 settembre con Bruno Arpaia, alle ore 21.30
per tanto tempo era stata inserita nell’Indice dei libri proibiti... Mi chiesi come aveva fatto ad arrivare fin lì in quei tempi oscuri la vietatissima Encyclopédie ». E qui comincia la storia. Il cattolicissimo re di Spagna Carlo III «era colto e ragionevolmente avanzato, come una parte del clero, sebbene minoritaria. C’era gente perbene che cercava di portare i Lumi e, con essi, di lasciarsi alle spalle secoli di oscurità». Quindi il sovrano non si oppone alla richiesta dell’Academia di mandare due suoi autorevoli membri da Madrid a Parigi per comperare una prima edizione dell’opera e portarla in patria. L’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert è vietata anche in Francia (ma solo formalmente, in realtà si può trovare con soldi buoni e buone conoscenze). I prescelti sono l’ammiraglio e il bibliotecario. Don Pedro Zárate y Queralt, sessantenne mai sposato che «ha fama di uomo ritroso ed eccentrico. È un tipo, alto, magro, ancora bello, dall’aria malinconica e dalle maniere rigide, quasi austere. Ha i capelli grigi moderatamente lunghi, anche se iniziano a diradarsi, raccolti in una corta coda di cavallo da un nastro di taffetà. La cosa più vistosa del suo volto sono gli occhi azzurro chiaro, molto acquosi e trasparenti, abituati a guardare gli interlocutori con una fissità che diventa inquietante, quasi fastidiosa, quando la sostiene troppo». Indossa d’abitudine un impeccabile frac nero, completato da un cravattino largo di seta, dal nodo perfetto. La sua curatissima persona contrasta con quella del suo compagno di viaggio e di avventure. Don Hermógenes Molina — gli amici intimi si azzardano a chiamarlo Hermes —, anche lui sessantenne, è un uomo basso, grosso, bonaccione, vedovo da cinque anni. «Sebbene poco attento al suo aspetto — la casacca lisa sui gomiti ha macchie di cioccolato e resti di tabacco da fiuto sui risvolti — il suo buon carattere lo compensa in abbondanza, facendolo stimare dai colleghi». A differenza di altri accademici «non usa parrucca né cipria per i capelli, che porta corti e mal tagliati, ancora scuri sebbene spruzzati di bianco. La barba fitta, che avrebbe bisogno di due rasature al giorno per sembrare curata, ombreggia un volto in cui gli occhi castani, benevoli, castigati dall’età e dalle letture, sembrano contemplare il mondo con un certo disorientamento e un’educata meraviglia».
Zárate non crede in Dio, ma nella scienza e nella ragione. Hermógenes crede nella scienza, nella ragione e anche in Dio. Da qui appassionate discussioni filosofiche che accompagneranno i due uomini buoni nel loro viaggio. Duecentosessantacinque leghe, un mese di fatica appena per l’andata, in carrozza scortati soltanto dal cocchiere. È un viaggio «per un’Europa sempre più turbolenta, dove i vecchi troni vacillano e tutto sembra cambiare troppo in fretta».
Arrivare a Parigi è stata già un’impresa — agguati di briganti, sfide con una nadi