L’eroe normale che sfidò i banditi
Prima ha messo in salvo la figlia, poi si è preoccupato degli altri. Anatoliy Korol non era un pazzo sconsiderato. Ma ha affrontato come ha potuto, a mani nude, i rapinatori che lo hanno sorpreso mentre faceva la spesa nel supermarket sotto casa, e ha pagato con la vita il suo atto di coraggio. Che si sia comportato da eroe non c’è dubbio. Ricordarlo come tale è dunque il minimo che ora si possa fare. Ma a parte l’impegno a sostenere la sua famiglia, che da ucraino era riuscito a mettere su qui in Italia, e a parte l’obbligo morale e sostanziale di assicurare alla giustizia i responsabili dell’omicidio, c’è altro che si può fare. Si può evitare di impastare l’eroismo di Korol — «esemplare», lo ha definito il governatore De Luca — con i pregiudizi e i sensi di colpa che la sua morte sta facendo affiorare: per giunta, nel vivo di una immigrazione di massa che ci costringe a vivere un tumultuoso rapporto con l’Altro, con uno Straniero che non è più solo un oggetto letterario. In molti commenti postati in Rete, a Korol è stato rimproverato ex post di non aver tenuto gli occhi bassi. Di non essersi comportato come un napoletano avrebbe fatto. Anche la moglie, disperata, ha detto che avrebbe dovuto evitare di intervenire. Ma che lo abbia detto lei è comprensibile. Che lo si dica, invece, come altri lo dicono, per dipingerlo come un marziano caduto sulla Terra e che poco conosceva dell’ambiente in cui viveva, è tutta un’altra storia. Come se Korol fosse colpevole di estraneità: lui che era qui da anni. E come se Napoli fosse una città interamente invigliacchita dalla consuetudine camorristica. Non è così. Napoli è pur sempre la città di Giancarlo Siani, ucciso per aver raccontato quel che aveva visto, e di tanti testimoni coraggiosi. Ma bisogna decidersi: le testimonianze civili spesso sono scomode, raccontano di una Napoli non tutta rose e fiori. Non si può un giorno incoraggiarle, in nome del senso dello Stato, e un altro dolersene per l’ombra oscura che esse proiettano sulla città.