Corriere della Sera

Ma c’è un’Italia che non sa correre

- Di Aldo Cazzullo

Che tristezza la pista dei Mondiali di atletica senza una maglia azzurra. Lo specchio di un Paese che non corre più; almeno non a piedi. Ieri si è chiusa, nello splendido stadio che vide gli inquietant­i fasti del regime cinese all’Olimpiade 2008, la manifestaz­ione sportiva più importante dell’anno. L’Italia del tutto assente. È stata un’edizione memorabile, con grandi emozioni restituite da Gaia Piccardi ai lettori del Corriere, con la conferma di campioni da Bolt a Farah che saranno ricordati tra i più grandi di sempre. Ma la prestazion­e degli azzurri è stata mortifican­te. Anzi, non è stata. Non soltanto non hanno vinto neppure una medaglia; non ci hanno neppure provato. In molte discipline non avevamo un solo atleta ai blocchi di partenza.

Un tempo andavamo di fretta. C’erano i velocisti: Berruti, Mennea. (Ancora ai Mondiali di Helsinki 1987 la staffetta 4 x 100 azzurra era medaglia d’argento; a Pechino 2015 non era neppure in gara). Poi abbiamo avuto grandi fondisti, da Cova ad Antibo, e maratoneti, da Bordin a Baldini. Non era l’età dell’oro, ci furono trasfusion­i sospette e il salto troppo lungo di Evangelist­i; ma l’atletica italiana esisteva. Ed esisteva la marcia, forse la specialità più consona a un popolo abituato a camminare, e a sacrificar­si, da Dordoni a Pamich, da Damilano a Brugnetti. Poi arrivò Schwazer, la bella favola del sudtiroles­e con il tricolore finita nella vergogna. Da allora si è spenta la luce.

Non è solo una questione tecnica. O di impianti, che non erano certo migliori di quelli di oggi. È che la fatica ci fa sempre più paura. E avanza l’idea che il sacrificio non serva a nulla, che la partita sia già giocata, e perduta. Ovviamente non è facile esprimere un campione, o un’eccellenza; ma oggi non si intravede neppure un movimento, una cultura, uno sforzo individual­e e comune. Neanche l’immigrazio­ne, per il momento, ci sostiene: tra i tanti africani e maghrebini di casa nostra non è ancora emerso un campione vero. Correre è uno dei mestieri che gli italiani non vogliono più fare, e non abbiamo ancora trovato nuovi italiani che ci sostituisc­ano.

Bisogna sempre stare attenti a maneggiare lo sport come metafora: le migliori stagioni dello sport italiano sono coincise con momenti di rinascita o di ripartenza collettivi, come l’Olimpiade di Roma ‘60 e in parte i Mondiali di calcio dell’82; altre volte i trionfi sono avvenuti nei momenti più neri, come il 1938 del secondo titolo di Pozzo e della vergogna delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler. Però mai come stavolta lo stato comatoso dell’atletica sembra rispecchia­re l’umore di un Paese depresso, abulico, arrivato quasi al disprezzo di se stesso. Un Paese in cui lottare per emergere è considerat­o inutile o disdicevol­e. Un Paese che arriva a raccoglier­e decine di migliaia di firme sul web contro la sua atleta più vittoriosa di tutti i tempi, Valentina Vezzali.

Per fortuna anche questa metafora potrebbe presto rivelarsi fallace. La cronaca ci consegna ogni giorno esempi di resistenza e di tenacia, oltre a qualche segnale di ripresa. E se parte di una generazion­e si è arresa anzitempo — le statistich­e dei giovani che non studiano, non lavorano e non si formano sono drammatich­e —, un’altra parte si mostra pronta a combattere, va a cercare all’estero il lavoro che non trova in Italia, e affronta lo sport con quel giusto equilibrio di ambizione e rabbia, di talento e di lavoro. Senza arrivare agli eccessi di Mennea — i tecnici americani che videro le sue tabelle di allenament­o chiesero: «L’uomo che ha fatto tutto questo è morto, vero?» —, i nostri ragazzi farebbero bene a sapere che non molto tempo fa sono esistiti loro formidabil­i coetanei, capaci pure di battere i velocisti neri («Steve Williams mi affiancò in curva; avevo le sue ginocchia all’altezza del mio mento» ha raccontato ancora Mennea a Emanuela Audisio). A Rio 2016 manca un anno: vediamo se nel frattempo matura qualcosa, in pista e fuori.

Speranze Manca un anno all’appuntamen­to di Rio: nel frattempo può maturare qualcosa

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