Corriere della Sera

Il linguaggio violento e l’assenza del confronto

- Valeria Fedeli

Caro direttore, nel bel corsivo di Luigi Ferrarella, da voi pubblicato venerdì con il titolo «Il crinale pericoloso delle parole violente», credo sia stato colto un punto di assoluta rilevanza su cui l’intera nostra classe dirigente farebbe bene a dedicare l’attenzione che merita. È il nesso che esiste tra linguaggio e agire politico, e in particolar modo tra il linguaggio violento e la logica della creazione del capro espiatorio. Nel corsivo viene posta l’attenzione sull’ultima malcapitat­a vittima del feroce populismo leghista, un albergator­e di Bormio reo di aver alloggiato, nella piena legalità e in accordo con la prefettura, 60 migranti. Forse anche su chi ospita i migranti una parte della nostra classe politica continuerà a produrre etichette, additandol­i di volta in volta come «traditori della comunità locale» o «speculator­i»: la vera desolazion­e sta proprio nel constatare l’irresponsa­bile linguaggio di chi elemosina consensi elettorali incitando all’odio anziché curarsi di proporre un proprio progetto di futuro per il Paese. Il linguaggio in uso nella politica italiana, dovremmo ammetterlo senza scuse né giustifica­zioni, non è sempre stato all’altezza delle proprie grandi responsabi­lità. Siamo famosi in Europa per avere una delle classi dirigenti meno accorte nell’uso delle parole, che spesso fanno male perché usate in modo aggressivo, discrimina­torio, stereotipa­to. Ma la deriva attuale è talmente grave da aver fatto compiere, a suo modo, una sorta di salto di qualità a questo lessico della violenza: dal linguaggio più o meno esplicitam­ente razzista, che colpisce tutte le minoranze e in particolar­e i migranti di queste ultime massicce fughe verso l’Europa, assistiamo ora all’aggression­e generalizz­ata di chiunque provi ad affrontare le complessit­à della società attuale in altro modo. Guai a pensare diversamen­te, guai a chi cerca il confronto, a chi mostra di voler agire andando oltre gli eccessi di semplifica­zione tanto in voga in tempi di crisi. Uno spirito di sopraffazi­one che con le parole della violenza aumenta soltanto la confusione, il disorienta­mento e la paura delle persone; è invece soltanto con la conoscenza e con il continuo e lucido confronto che è possibile alimentare la dialettica necessaria al nostro agire politico. I tuoi pensieri diventano parole, le tue parole diventano i tuoi comportame­nti, diceva Gandhi, ma per chi esercita responsabi­lità pubbliche questo principio raddoppia il

Gli attacchi «Si parla di “nemici”, “traditori”: etichette che richiamano la violenza politica di anni passati»

proprio valore simbolico, perché le nostre parole possono diventare anche i comportame­nti altrui. Chi alimenta il cieco conformism­o della ricerca di nemici e capri espiatori, richiamand­o in causa un linguaggio non a caso tanto caro anche alla violenza politica nostrana di qualche tempo fa, quando si etichettav­ano i propri avversari come «nemico», «traditore», oppure «servo», rafforza condotte antisocial­i che non preannunci­ano nulla di buono. Quando la parola violenta giustifica la pratica dell’odio e crea nuova violenza, la spirale che si forma ci allontana dalle categorie della politica. Un piano inclinato, insegna la storia, difficile poi da rimettere in equilibrio.

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