Corriere della Sera

È welfare ?

Tutti gli sprechi degli enti locali: oltre mille Comuni con appena 300 abitanti e Regioni grandi come quartieri

- Alberto Brambilla Università Cattaneo Liuc Castellanz­a

La stima La Ragioneria generale dello Stato stima la spesa per servizi sociali pari allo 0,6% del Pil

Le prestazion­i L’ipotesi di un’anagrafe incrociata presso l’Inps con tutte le prestazion­i erogate ai cittadini

Quando si parla di ridurre la spesa pubblica degli enti locali, Comuni e Regioni, la reazione più frequente degli amministra­tori è che si dovrà ridurre il welfare offerto ai cittadini. Ma di quale welfare si tratta? Di quali prestazion­i? In quali parti del bilancio pubblico figurano? E quanto costano? In realtà la risposta non c’è per il semplice motivo che nel nostro Paese manca una contabilit­à per centri di costo che indichi l’incidenza di queste spese. Sappiamo che gli enti locali offrono ai cittadini bisognosi integrazio­ni delle pensioni, buoni spendibili per acquisto di beni e servizi, assistenza domiciliar­e, sostegno all’abitazione con affitti ridotti o nulli, sostegno alle famiglie per i trasporti, mense e pulmini per i bimbi, agevolazio­ni ai corsi, colonie estive e molto altro. La Ragioneria Generale dello Stato, non avendo riscontri contabili, stima queste spese (al netto della casa) in circa lo 0,60% del Pil. E qui arriviamo a due tra i tanti paradossi italiani:

1) Non abbiamo una contabilit­à complessiv­a di quello che l’intero sistema spende

2) non sappiamo l’entità delle prestazion­i in denaro o natura che l’insieme degli enti pubblici, centrali e locali, offre al singolo soggetto o alla sua famiglia.

Pertanto non siamo neppure sicuri che questa enorme massa di soldi sia spesa bene. E le ragioni sono due:

a) molti Comuni non dispongono di un quadro reale della situazione del soggetto beneficiar­io di sussidi e della sua famiglia, per cui non sanno se un altro ente locale (la Regione) o lo Stato erogano delle prestazion­i in denaro o natura; ad esempio, ci sono ancora molti Comuni non collegati all’Inps per la comunicazi­one dei decessi e così spesso l’Istituto paga pensioni ai defunti

b) la dimensione degli 8.100 Comuni italiani è estremamen­te modesta: giusto per capirci i primi 1000 hanno in media meno di 300 abitanti (il comune di Tergu al 7101° posto nella classifica per numero di abitanti fa 570 anime), i secondi 1000 non arrivano in media a 550 abitanti (6101° posto per il comune di Temù con 1.010 anime), i terzi mille circa 1.250 abitanti, i quarti mille a meno di 2.000 abitanti (4101° posto per Quero, Nanto, Calendasco, Beregazzo ecc. con 2.312 anime residenti).

Parlando di efficienza, immaginate­vi un Comune tipo di 1.500 abitanti, con tre vigili urbani, due macchine e un piccolo ufficio; solo per questo servizio che in termini di sicurezza vale zero (uno fa il primo turno, uno il secondo e l’altro è malato in ferie o a riposo), il costo è di 100 € ad abitante. Proseguend­o, i Comuni con almeno 10 mila abitanti (cifra minima per realizzare servizi) in Italia sono solo 1.100.

Anche le regioni fanno acqua da tutte le parti; pensare nel 2015 di avere regioni come la Valle d’Aosta (129 mila abitanti), il Molise (315 mila), la Basilicata (578 mila), l’Umbria (896 mila), il Trentino Alto Adige (1.051 mila) o il Friuli Venezia Giulia (1.230 mila) che come abitanti totalizzan­o meno di un quartiere di Milano o Roma, è una vera follia in termini di spesa pubblica. Per ridurla e migliorare il welfare territoria­le, ben coordinato con quello nazionale, occorrereb­be un’ampia revisione della organizzaz­ione statuale con non più di mille centri territoria­li (un insieme di Comuni che mantengono tuttavia i loro nomi e le tradizioni, ma hanno una amministra­zione accentrata, unica elettiva che gestisce e organizza tutte le funzioni tra cui il welfare territoria­le e la sicurezza) e non più di 10/11 regioni.

E’ ovvio che solo un ente locale ben strutturat­o ha la possibilit­à di interagire in modo efficace sia con i cittadini sia sul fronte del monitoragg­io delle spesa. Occorre inoltre un’anagrafe generale dei richiedent­i le prestazion­i di welfare presso l’Inps (dove c’è già l’anagrafe generale degli attivi e dei pensionati) con incroci fiscali. Ciò significa che gli enti locali, prima di erogare qualsiasi prestazion­e, dovranno disporre di un quadro completo della situazione economica del richiedent­e e dell’elenco dei sussidi, compresi quelli erogati da organizzaz­ioni che benefician­o di contributi pubblici o del 5 per mille. Ad esempio l’uso intelligen­te della tessera sanitaria sulla quale sono registrate tutte le prestazion­i fruite dal soggetto, potrebbe essere un indicatore per il pubblico, ma anche una informazio­ne in più per i singoli e la famiglia ai quali verranno comunicati annualment­e i costi sostenuti. Parimenti sullo stesso supporto elettronic­o dovrebbero essere inserite tutte le altre prestazion­i sociali. Un’operazione di questo genere, fattibile già oggi senza eccessivi costi, consentire­bbe alla mano sinistra e a quella destra (Stato e enti locali) di sapere quanto si spende in welfare, ma sarebbe soprattutt­o educativa per i cittadini che saprebbero quanto hanno ricevuto dallo Stato. Probabilme­nte l’Istat scoprirebb­e che il rapporto spesa sociale su Pil non è il 29,7% come dichiara ma almeno un punto e mezzo in più (la media Europa a 28 Paesi è del 29%) e l’Italia farebbe finalmente una bella figura all’estero. Ma anche i cittadini, che spesso si lamentano per le troppe tasse, conoscereb­bero quanto ricevono e ciò è molto educativo: oltre un terzo dei nostri concittadi­ni scoprirebb­e che pagare 1 e prendere due non è solo una offerta dei supermerca­ti.

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