IN LIBANO E MALESIA SI ACCENDE LA PROTESTA MA NON PARLIAMO DI PRIMAVERA
L’aria irrespirabile del Libano soffocato dalla corruzione, dai governi che non funzionano e dalle colline di spazzatura accumulate agli incroci. La folata di ossigeno pompata dai giovani che protestano. La genialità di un hashtag — #youstink — che denuncia la puzza d’immondizia e quella di un sistema ormai disfunzionale. I commentatori e gli ottimisti (o i commentatori ottimisti) ritornano a parlare di «primavera araba», sognano che le manifestazioni a Beirut, come le pulizie stagionali, rassettino e riassettino un Medio Oriente ormai affondato nel caos dopo la speranza delle rivoluzioni. In Egitto è finita con i militari al potere e le organizzazioni per i diritti umani che accusano Abdel Fattah Al Sisi, il generale diventato presidente, di aver superato la macchina dell’oppressione instaurata da Hosni Mubarak. La Libia è diventata l’approdo e la base d’attacco dello Stato Islamico sul Mediterraneo. Dopo 250 mila morti e il Paese devastato dalle macerie, sembra impossibile ricordare che anche in Siria — nelle prime settimane di rivolta disarmata — i maestri di scuola, gli impiegati, i genitori che chiedevano di rivedere i figli scomparsi nelle celle della tortura gridavano gli stessi slogan urlati dalle altre «primavere». Sono le frasi che adesso ripetono i ragazzi del Libano — dove i quindici di guerra civile rendono tutti guardinghi verso i sommovimenti politici — e le migliaia di manifestanti riuniti a Kuala Lumpur in Malesia. Le richieste di riforme sono riassunte in una parola: «Basta». Basta con il malgoverno, gli abusi, le diseguaglianze. Questa volta per scendere in strada devono superare non soltanto la paura dei manganelli di regime ma pure quella che alla fine vada tutto male e che anche da questa primavera sbocci solo la repressione.