Non solo Bolt e Farah chi sale e chi scende nell’atletica che cambia
Dalla maratona del «decrepito» 19enne Ghebreslassie alla 4x400 che tiene la Giamaica una spanna davanti agli Usa (da Mosca 2013, dove dominarono, gli americani hanno perso per strada sette medaglie), è stato un Mondiale bellissimo, di rottura, quasi rivoluzionario. Il Kenya in vetta al medagliere (43 paesi, record, addirittura 70 nella classifica a punti) ci dice con forza, anzi urla a gran voce che l’atletica non è più terra di conquista solo delle superpotenze e dei paesi capitalisti. L’Africa (Etiopia quinta con quattro medaglie solo ieri: tripletta nei 5.000 che si sono negati alla Dibaba) si sta svegliando in specialità non tradizionali. Nel 2015, nell’era delle start-up, dei social e del posto di lavoro flessibile (o inesistente), vince chi sa fluire con il cambiamento, non chi lo ostacola rimanendo abbarbicato a baronati appartenenti a un’altra epoca. I fuoriclasse — Usain Bolt e Shelly Ann Fraser tre ori, Mo Farah doppietta, Ashton Eaton record del mondo nel decathlon, Dafne Schippers clamorosa macchia bianca sul black power — giocano un campionato a parte. Gli altri si fanno venire buone idee. L’importante è non essere pigri di testa né troppo affezionati alle quattro mura di casa. Il Kenia dei mezzofondisti e dei fondisti ha stupito il mondo partendo alla conquista di territori inesplorati con due ori che non ti aspetti: Yego nel giavellotto e Bett nei 400 hs. Inutile piangersi addosso sui casi doping (gli unici due di Pechino 2015 sono kenioti): creare opportunità è da paese occidentale, altro che terzo mondo. Solo così si resta nel G8 dell’atletica.
Colpisce il salto di qualità del Canada: trascinato da ottimi tecnici, è emerso dalle macerie dello scandalo doping di Ben Johnson ricominciando a sfornare giovani campioni (Barber nell’asta, De Grasse nello sprint, Drouin nell’alto, Warner nel decathlon) dai centri federali, ben distribuiti su un territorio sconfinato. La Polonia si conferma terra di lanci. La Russia decimata dall’antidoping ha mandato a Pechino una delegazione ridotta (4 medaglie, nel 2003 ne vinse 17) che non fa testo; proprio per questo bisognava approfittarne (vedi le azzurre della marcia, squalificate). Con l’aiuto delle eccellenze straniere, la Cina esce a testa alta dal suo Mondiale (9 medaglie con lo storico argento della 4x100). A Sandro Damilano, il guru della marcia, verrà fatto un monumento in piazza Tienanmen: un oro e due argenti sono da mettere in quota all’ex coach di Schwazer, che qui trattano da re e che a Saluzzo, in Piemonte, ha costruito la nuova generazione di marciatori cinesi, già in viaggio verso Rio. E per i salti, dagli Usa, è arrivato l’inventore del record di Mike Powell: coach Huntington. Chi più spende, meno spende.
La Francia, due bronzi, è crollata ma comunque sta meno peggio di noi. La verità è che molti stanno meglio di noi. La Colombia si è presa il triplo con la Ibarguen, Cuba è uscita dall’embargo con disco e asta donne, Sudafrica (Van Niekerk nei 400 e Jobodwana nei 200) e Olanda (Schippers) hanno portato a maturazione talenti in costruzione da anni. Se il Mondiale ha fatto la rivoluzione, immaginiamoci la potenza di un’Olimpiade vicina 12 mesi. Neanche il tempo di voltare pagina e l’atletica, che non aspetta nessuno, ci avrà di nuovo lasciati a bocca aperta.