Boldrini e il diritto all’asilo «Giusta la mossa di Renzi, servono standard comuni»
Presidente Laura Boldrini, in Europa non c’è una politica comune sul diritto d’asilo. Lo ha sottolineato il presidente Usa Barack Obama, lo ha ripetuto Matteo Renzi (la presidente della Camera è negli Usa per la conferenza mondiale dei presidenti dei Parlamenti).
«Ho letto con piacere l’intervista al Corriere della Sera del presidente del Consiglio Renzi. Ha detto cose molto condivisibili. Mi sono occupata per 15 anni di diritto d’asilo (come portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, ndr) e credo che sia un tema sul quale l’Unione Europea possa avviare una vera politica di integrazione, che implica anche uniformare gli standard di protezione e di assistenza».
Paesi diversi che interpretano il diritto all’asilo in modo diverso?
«Sì. Per fare un esempio, un somalo che arriva in Italia può ottenere l’asilo, ma può non ottenerlo se arriva in un altro Paese Ue. E viceversa. Se non c’è uno stesso metodo di valutazione, è ovvio che tutti vogliono andare laddove c’è più disponibilità di vedere accolta la richiesta d’asilo».
E si fa confusione tra chi fugge dalla guerra e chi migra per povertà.
«Una confusione che viene alimentata da chi pretende di trattare questo problema senza conoscerlo e ha interesse a creare allarme e paura. C’è chi si meraviglia che persone che attraversano il mare sui barconi abbiano il cellulare, senza capire che si tratta di gente che fino a un momento prima aveva esattamente lo stesso nostro stile di vita, ma è dovuta fuggire dai bombardamenti e dalla violenza. In Italia, comunque, il diritto d’asilo non viene riconosciuto a chiunque lo chieda: ci sono commissioni che incontrano i richiedenti e decidono, dicendo anche dei no».
In Parlamento c’è questa consapevolezza?
«Alla Camera questo argomento viene affrontato da alcuni gruppi in modo ideologico e ciò non aiuta l’approfondimento, mentre temi come immigrazione e asilo, troppo importanti per farne materia di demagogia, dovrebbero essere trattati in modo da trovare le soluzioni e non con ricette semplicistiche, e per questo impraticabili».
In Francia, Inghilterra, Ungheria, negli Usa, i politici chiedono muri e rimpatri.
«I muri sono la soluzione che fa più breccia, ma che non risolve perché la gente disperata, quella che fugge dalle bombe in Siria o dalle persecuzioni in Eritrea riesce ad arrivare lo stesso. L’Europa non è riconosciuta e rispettata nel mondo perché fa muri, ma perché è quella dell’economia sociale, del welfare, del rispetto dei diritti. Ci vuole altro». Cosa? «Siamo di fronte alla più grave crisi dei rifugiati dalla Seconda guerra mondiale, con 60 milioni di persone costrette a fuggire nel mondo, un esercito pari alla popolazione italiana che non ha più una patria. Ma va sempre ricordato che la gran parte di loro si trova nei Paesi del Sud del mondo. È anche per far fronte a questo quadro che è necessaria un’Europa più unita, capace di dare risposte alle grandi sfide globali. Un’Europa 2.0 che si chiama Stati Uniti d’Europa. Bisogna che ciascuno sia disposto a una condivisione di sovranità ripensando anche all’architettura europea. Questo è il momento giusto per farlo perché tutti hanno preso atto dei limiti di questa Europa e hanno capito che dobbiamo andare avanti su una strada che ci renda più forti. L’Europa ci conviene. Anche per dare certezza ai nostri partner che, a cominciare dal presidente Obama, vedono la nostra debolezza con preoccupazione, mentre sanno che un soggetto coeso è capace di stabilizzare un’intera regione».
Però l’Europa è vista come una matrigna severa che chiede solo sacrifici?
«E infatti molti leader non si spendono come dovrebbero perché temono che parlando di Europa si perda consenso. Invece, bisogna trasformare l’Europa in una risorsa perché smetta di essere percepita solo come austerità senza scadenza che deprime l’economia, crea stagnazione, indebolisce il potere d’acquisto dei salari. Dobbiamo costruire una nuova casa europea basata sulla crescita e sull’occupazione, che sappia ispirare e dia un futuro ai nostri figli. Tutti siamo disposti a fare sacrifici, ma dobbiamo sapere quando essi finiranno. Se ha senso fare politica oggi è per riuscire a migliorare la vita delle persone che è messa a dura prova. E questo lo si fa concentrandosi sul cambiamento di rotta dell’Europa».
Ne ha parlato con gli altri presidenti di Parlamento?
«Penso che ci sia finalmente un cambio di attitudine verso la necessità di dare nuovo impeto al processo di integrazione politica. C’è molta preoccupazione per i flussi migratori, per il fatto che ancora non si riesce a uscire dalla crisi e per l’avanzare di forze populiste che stanno sfruttando tutto questo a loro vantaggio. Se non ci muoveremo subito, consegneremo il continente ai soggetti che hanno interesse a disgregare anziché costruire».