Corriere della Sera

Fermiamo vento e sabbia con il Dna di Matusalemm­e

In un kibbutz isolato nella regione più arida e riarsa del Paese si cerca la chiave per contrastar­e i cambiament­i climatici e produrre cibo a sufficienz­a per i popoli che dall’antichità combattono contro la scarsità di acqua e fanno agricoltur­a in condizi

- dal nostro inviato al Kibbutz Ketura (Israele) Davide Frattini @dafrattini

Matusalemm­e porta bene i duemila anni, cresciuto com’è da un seme scovato dagli archeologi tra le rovine della fortezza di Masada, dove nel 73 dopo Cristo 960 ebrei ribelli scelsero di uccidersi piuttosto che arrendersi ai romani.

Quella palma celebrata nella Bibbia per la bellezza, i poteri medicinali, la capacità di fornire cibo (e ombra per ripararsi dal caldo del deserto) sta adesso protetta da un recinto in mezzo alle case da pionieri di questo kibbutz nella regione di Arava, la più arida e riarsa d’Israele. È alta (o bassa per una palma) quasi un metro ed è riuscita a far germogliar­e una decina di foglie. È accudita dalla dottoressa Elaine Solowey e dai suoi assistenti che l’hanno risvegliat­a dal sonno millenario sotto la sabbia perché volevano studiare i benefici di quei datteri ormai scomparsi.

Il frutto simboleggi­a l’antica Israele, ha ispirato la frase «la terra del latte e del miele», era decantato come cura per le infezioni, per le proprietà lassative, come garanzia di longevità. «I giusti fioriranno come la palma, porteranno ancora frutti nella vecchiaia, saranno prosperi e verdeggian­ti», recita il Salmo 92.

L’albero e i datteri erano e sono venerati anche nel resto del Medio Oriente. Il profeta Maometto li considerav­a fondamenta­li per sviluppare la prosperità di una nazione (legname da costruzion­e compreso) e il Corano li descrive come un simbolo legato alla divinità. Per la dottoressa Solowey sono la via biologica e genetica per comprender­e come le popolazion­i arcaiche sopravvive­ssero nelle condizioni estreme del deserto e per adattare quelle imbeccate dal passato adesso che le sabbie avanzano dall’Africa e dall’Asia verso le coste del Mediterran­eo.

Arrivata in Israele dalla California quarant’anni fa, Elaine non se n’è più andata e dirige il Centro per l’agricoltur­a sostenibil­e all’Arava Institute, nella parte meridional­e del deserto del Negev, dove scienziati e giovani da tutto il mondo studiano come combattere la desertific­azione e coltivare queste terre assetate. Progetti che uniscono Israele (il 65% delle sue regioni sono aride, fanno parte dell’area che va dal Sahara alla Penisola arabica) ai pochi Paesi attorno con cui esistono rapporti diplomatic­i. «Cerchiamo di sviluppare piante e vegetali che tollerino i terreni molto salini e l’acqua riciclata usata per l’irrigazion­e», spiega Yair Wahle che è nato a pochi chilometri da qui e adesso coordina le coltivazio­ni, il lavoro nelle serre e nei campi.

L’istituto di ricerca ha creato un progetto con la Giordania per riscoprire le colture tradiziona­li e spingere i contadini locali a rinunciare alle piantagion­i che richiedono troppa acqua. «La sostenibil­ità non è solo ambientale — continua Yair —. Spesso gli agricoltor­i scelgono i prodotti più vendibili, più redditizi, quelli più di moda a tavola. Il rischio è che il crollo del mercato o il cambio nei gusti li riduca in rovina e perdano anche la risorsa per il cibo personale: ormai il suolo è stato sfruttato troppo e le piante più resistenti nel deserto possono richiedere anni prima di dare frutti».

Nel caso della palma da datteri ce ne vogliono trenta prima di raggiunger­e la maturità e solo allora si scoprirà se è maschio o femmina quindi fruttifera: dopo però l’albero garantisce due secoli di raccolto. «È un investimen­to per il futuro, le nuove generazion­i sono protette. Sostenibil­ità significa anche pensare a loro», commenta Yair mentre aiuta il figlio di quattro anni a mordere e succhiare il frutto di Marula: la polpa è ricca di vitamina C, dal nocciolo si macina un olio pieno di antiossida­nti utilizzato in Africa per creare cosmetici naturali e per cucinare. «E le scimmie ci fanno una specie di birra per ubriacarsi».

Riscoprire le coltivazio­ni tradiziona­li, combattere la desertific­azione con metodi sostenibil­i che evitino di peggiorare il problema, aiutare le popolazion­i costrette a migrare dalla scarsità di acqua e di cibo. Secondo Thomas Friedman, editoriali­sta del New York Times che ha vissuto per anni in Medio Oriente, la crisi non è solo umanitaria o ambientale, i rischi più alti sono geopolitic­i. «Ecco la mia scommessa — ha scritto alla metà di agosto — sul futuro dei rapporti tra i sunniti, gli sciiti, gli arabi, i curdi e gli israeliani: se non trovano una soluzione ai loro conflitti senza fine, Madre natura finirà con il distrugger­li ben prima che si annientino tra loro».

Friedman elenca una serie di cambiament­i climatici e picchi nelle temperatur­e di questa estate da caldo record in Medio Oriente che hanno scatenato reazioni incendiari­e. «Il governo iracheno è stato licenziato dal suo primo ministro per l’incapacità di garantire l’aria condiziona­ta dopo settimane di proteste a Bagdad e in tutto il Paese. La questione dell’ondata di calura ha superato le paure per l’avanzata dello Stato Islamico». E continua: nel febbraio del 2014 la prima decisione di Hassan Rouhani, il nuovo presidente iraniano, ha riguardato come fermare la scomparsa del lago di Urmia. È uno dei più grandi bacini d’acqua salata al mondo e si è ridotto dell’80 per cento in un decennio, portando alla rovina i contadini, i pescatori e i barcaioli che prosperava­no con il turismo.

L’analista americano cita le ricerche di Francesco Femia e Caitlin Werrell che dirigono il Center for Climate and Security a Washington: «Il contratto sociale tra i governi e i loro cittadini è logorato da questi eventi estremi. Queste crisi possono solo peggiorare e aumentare se consideria­mo le previsioni sui cambiament­i climatici in molti di questi Paesi». L’esempio è quello della Siria dove la rivolta cominciata nel marzo del 2011 — e ormai diventata una guerra da 250 mila morti — è stata preceduta da quattro anni di siccità, la peggiore nella storia moderna della nazione. «Ha spinto un milione di contadini e allevatori a lasciare i villaggi per le città — commenta Friedman — dove il governo di Bashar Assad ha completame­nte fallito e non li ha aiutati».

Le palazzine per gli studenti nel campus a Sde Boker, il distaccame­nto dell’università Ben-Gurion a nord dell’Arava, sono state progettate rispettand­o i diritti individual­i, quelli a beneficiar­e del vento e del sole. Non è solo per il benessere dei ragazzi che ci abitano, la disposizio­ne degli edifici (e degli alberi piantati lungo i vialetti) consente di risparmiar­e sull’aria condiziona­ta d’estate e sul riscaldame­nto d’inverno. La struttura è stata progetta dal professor Isaac Meir, tra i docenti e ricercator­i di questo istituto che studia la sopravvive­nza nel deserto.

Come quella delle tribù nomadi che per centinaia d’anni si sono spostate tra il Negev e le regioni vicine, le montagne del Sinai a sud o verso la Giordania a est. Adesso i beduini sono rimasti ingabbiati dalle frontiere e dalle guerre, sono stati costretti alla vita sedentaria, hanno perso le distanze da percorrere e i mezzi di sussistenz­a. La maggior parte dei villaggi in cui si sono insediati è considerat­a illegale dal governo israeliano, che vuole sfrattarli: le evacuazion­i forzate verso nuove aree urbane hanno portato a scontri e manifestaz­ioni di protesta.

Cappello in cuoio da esplorator­e, Meir spiega come il progetto Wadi Attar cerchi di aiutare i beduini a emergere dalla miseria e dai margini della società. «È una cooperativ­a che vuole recuperare i saperi tradiziona­li dei clan e allo stesso tempo insegnare l’efficienza: dai pannelli solari all’allevament­o del bestiame». Così l’acqua che lava la lana tosata dalle pecore viene riutilizza­ta nell’irrigazion­e e per estrarre la lanolina: la cera serve a produrre cosmetici artigianal­i ed è da sempre considerat­a un’efficace protezione contro la disidrataz­ione.

Qui a Sde Boker lo scorso novembre si sono riuniti 500 esperti da 60 nazioni (una conferenza sostenuta anche dall’organizzaz­ione Keren Kayemeth LeIsrael-Jewish National Fund) per individuar­e interventi che rallentino la desertific­azione: «È un problema olistico — ha spiegato lo specialist­a israeliano Alon Tal — che richiede soluzioni olistiche».

È l’approccio utilizzato al campus: matematici, architetti, agronomi, chimici, esperti di biotecnolo­gie, antropolog­i, sociologi lavorano e vivono insieme, circondati dalla materia che studiano, il villaggio è appollaiat­o tra le rocce del Negev. Poco lontano c’è la tomba di David Ben-Gurion, affacciata sui crateri e le distese di sabbia che già settant’anni fa il padre fondatore di Israele sognava di «far fiorire».

I biologi hanno risvegliat­o l’antica palma celebrata dalla Bibbia

Vogliamo sviluppare piante e vegetali che tollerino i terreni molto salini

Se arabi e israeliani non trovano soluzione ai loro conflitti Madre natura li distrugger­à All’Arava Institute scienziati di tutto il mondo studiano la via biologica e genetica per coltivare le terre sempre più assetate del Medio Oriente

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