GLI EQUIVOCI DELL’UCRAINA TRA CRISI E SECESSIONISMO
Realpolitik o Uralpolitik? Le granate davanti alla Rada di Kiev, se non altro, chiariscono un equivoco che dura ormai da due anni: dalla rivolta di Maidan, dal « golpe americano» (definizione di Mosca) che prima provocò lo strappo incruento della Crimea e poi quello sanguinoso dell’Ucraina Orientale. Le posizioni sono più evidenti, adesso: lo scontro non è solo fra un Est armato dai 50 mila «volontari» di Putin e un Ovest protetto dagli Stealth di Obama. No: a Kiev, twittava giorni fa un editorialista filogovernativo, è l’ora di decidere fra la retorica dei sacri confini degli Urali, «l’Ucraina indivisibile baluardo d’Europa», e il realismo d’un Donbass più autonomo. Per il re della cioccolata, il premier Poroshenko, una scelta amara e necessaria: la prevedono gli accordi sul cessate il fuoco, peraltro poco rispettato, l’impone un’economia al default. Picchiano duro i guardiani rasati della rivoluzione, ma anche nella destra nazionalista s’avanza il dubbio: morire per quelle repubblichette autoproclamate? Tenersi stretti i grandi capitali delle mafie orientali? Laggiù, è più il gas che consumano del Pil che producono. Le fabbriche sono ormai vecchie e inquinanti. La tanto mitizzata produzione è crollata anche dell’80%. Chi avrà mai i soldi per ricostruire e ripartire?
Il realista Poroshenko, senza cedere sull’indipendenza e sullo statuto speciale, si trova per paradosso a dover difendere i secessionisti. Provando a dar loro un po’ di guinzaglio lungo, simulando qualche potere ai consigli regionali o alle «ronde del popolo». Inutile. Troppi morti al fronte. Troppi fronti aperti. L’ala destra dice no. «L’Ucraina per i russi è come Gerusalemme per gli ebrei», ha avvertito un giorno Putin. Retorica e granate: il contrario di quel che serve.